
Un Paese di single
“Vado a vivere da solo”, commedia di successo di Dino Risi del 1982, aveva come protagonista Giacomino (interpretato da Jerry Calà), ventiseienne studente universitario fuoricorso, figlio unico di genitori iperprotettivi milanesi, che ottiene proprio dai genitori i soldi necessari appunto per andare a vivere da solo in un malconcio loft meneghino e iniziare le sue avventure da scapolo gaudente e viziato. Oltre quarant’anni dopo la vita in solitario è considerata ormai la normalità in percorsi di vita sempre più frastagliati e meno lineari, con un incremento non solo dei giovani adulti che vivono da soli, per effetto della mobilità universitaria e lavorativa e del continuo posticipare del tempo in cui si sceglie di vivere in coppia, ma anche per quello delle separazioni e dei divorzi, e delle coppie, o addirittura famiglie, a distanza.
Vivere da soli, per lo meno nell’età adulta, è una condizione dinamica, di autonomia, in cui si entra, si esce e si rientra nel corso della vita, per la globalizzazione della vita lavorativa e affettiva, che ha perso lo stigma sociale del passato (semmai si parla di single e non più di celibi o nubili o peggio di zitelle o scapoli), e che ha perso l’alone psicologico della solitudine. In condizioni di autonomia e di scelta, vivere soli non significa, quindi, essere soli o sentirsi soli.
Diverso è il fenomeno di chi si ritrova a vivere da solo nell’ultimo segmento della vita, quando, soprattutto dopo i 75 anni, i bisogni specifici e le fragilità legate all’invecchiamento rendono più difficile la completa autonomia, alimentando il mercato di lavoratori domestici e badanti. Non stupisce che per la maggior parte delle persone proprio sopra i 75 anni la solitudine abitativa susciti, ad esempio, la paura della mancanza di assistenza immediata in caso di emergenza (dati Censis). Ma le famiglie unipersonali sono cresciute, e cresceranno ancora, proprio nelle fasce d’età anziane, trascinate dall’effetto combinato dell’aumento della lunghezza della vita e dal prolungato calo della natalità. In aumento sono, infatti, le persone kinless, cioè senza coniuge o senza figli, ormai pari in Italia (così come in molti altri paesi sviluppati) ad oltre un decimo della popolazione totale.
I dati ufficiali non riescono a cogliere la dinamicità dei percorsi di vita e degli episodi di vita solitaria prima della vecchiaia, ma fotografano lo stock delle famiglie unipersonali: nel 2023, secondo l’Istat, in Italia c’erano 9,3 milioni di persone che vivono sole (pari a quasi il 36% delle famiglie). Cinquant’anni prima erano solo 2 milioni. Il 47,5% del totale delle persone sole ha oltre 65 anni, percentuale che salirà quasi al 58% dei 10,7 milioni di persone che si prevede vivranno sole tra venti anni (pari quasi al 40% delle famiglie). Inoltre, nella popolazione adulta fino a 64 anni oltre il 60% di chi vive da solo è composto da uomini, mentre oltre i 65 anni sono nettamente le donne a prevalere (sette donne e tre uomini ogni 10 individui), in relazione al ben conosciuto vantaggio di sopravvivenza femminile e alla vecchia norma che vuole il marito più vecchio di almeno qualche anno della moglie.
Le tendenze negli altri paesi europei sono molto simili a quelle italiane. L’Eurostat riporta che quasi il 37% delle famiglie europee è composto da un solo adulto e proprio questa tipologia è in crescita vertiginosa (+ 21%) nell’ultimo decennio. L’invecchiamento della popolazione è ovunque il principale responsabile di questo incremento, nonostante le differenze tra paesi siano ancora molto legate alla propensione differenziale dei giovani ad andare a vivere da soli, con i paesi del Sud Europa in coda.
L’impatto sociale delle famiglie monocomponente nelle nostra società è forte e lo sarà ancora di più nei prossimi decenni per la rapidissima crescita della proporzione di persone sole nelle età più anziane: in due decenni sopra i 65 anni l’incremento previsto è del 40%, che si tradurrà in 6 milioni di persone anziane sole in più di oggi, di cui 4 milioni sopra i 75 anni (di cui 3 milioni donne).
Vivere da soli, a qualsiasi età, ma soprattutto nell’età anziana, non corrisponde automaticamente a una condizione di svantaggio: la rete familiare di supporto può essere forte ed efficiente anche in caso di non coabitazione. Tuttavia, dai dati ufficiali recenti, emerge con chiarezza che per le persone sole esiste una maggiore correlazione con una minore sicurezza economica e una maggiore vulnerabilità alla povertà. Chi vive da solo ha una minore probabilità di ricevere supporto economico immediato in caso di bisogno e, avendo minori economie di scala, ha una media più elevata di spese quotidiane, ricorre più spesso a servizi esterni a pagamento e ha costi abitativi pro-capite molto elevati, vivendo spesso in abitazioni sovradimensionate. A livello sociale tutto questo si traduce in una domanda abitativa più frammentata a parità di popolazione, in un maggiore consumo energetico, in modelli di consumo più orientati ai servizi, ma soprattutto in una maggiore richiesta di spesa pubblica per welfare e assistenza.
Di fronte all’invecchiamento, alla sfida dei bisogni di cura di tanti anziani, e alla loro solitudine c’è l’urgenza di nuove forme di aggregazione abitativa, quale ad esempio il cohousing, che consentano l’indipendenza e la dignità della vita anziana, coniugando spazi privati e aree e servizi di uso comune, e non ultimo, pratiche ecologiche e risparmi economici.