Contatti

Un gigante invisibile

, di Barbara Orlando
Uno studio Bocconi, pubblicato sulla Business History Review, racconta come il Lussemburgo sia diventato uno snodo globale della finanza. Il caso mostra come realtà di piccole dimensioni possano trasformare la marginalità in vantaggio, grazie alla coesione tra élite economiche e politiche, flessibilità normativa e strategie di specializzazione nei fondi comuni di investimento

Il potere dei piccoli Stati non si misura in numeri assoluti, ma nella capacità di muoversi con agilità nei mercati globali. È questa una delle lezioni che emergono dal paper “Business-Government Networks in Small States: The Emergence and Evolution of the Luxembourg Global Mutual Fund Industry, 1945–1988”, di Valeria Giacomin (Università Bocconi) e Matteo Calabrese (Freie Universitat Berlin e post-doc Bocconi) e pubblicato su Business History Review. Lo studio utilizza il caso del Lussemburgo per spiegare un fenomeno più ampio: come le relazioni strette tra élite politiche ed economiche possano favorire traiettorie di specializzazione nei piccoli Stati. Il Granducato, oggi secondo solo agli Stati Uniti per patrimonio gestito in fondi comuni, è diventato dagli anni Sessanta un nodo strategico della finanza europea e globale, nonostante (o forse grazie a) le sue ridotte dimensioni. “Il nostro obiettivo non era proporre modelli di policy, ma capire cosa rende possibile in alcuni piccoli Stati un vantaggio competitivo sostenibile nel tempo”, spiega Valeria Giacomin, assistant professor in Business and Global History. “Il Lussemburgo offre un caso interessante di ‘intimità gestita’, dove le relazioni personali e la coesione tra attori pubblici e privati contribuiscono alla sofisticazione normativa e all’attrattività finanziaria.”

Una strategia fatta di relazioni, non solo regole

La storia raccontata nel paper parte dagli anni Trenta, quando la legislazione lussemburghese sulle “società holding” comincia a offrire vantaggi fiscali agli investitori internazionali. Ma è nel dopoguerra, e in particolare dagli anni Cinquanta, che si sviluppa una rete stretta tra notai, avvocati d’affari e politici che porterà alla nascita e alla crescita dell’industria dei fondi comuni. Figure ibride, spesso con incarichi sia nel settore pubblico che in quello privato, riescono a orchestrare una serie di scelte legislative e interpretazioni giuridiche (come quella sulla legge del 1929) che rendono il Lussemburgo terreno fertile per attrarre capitali. Uno degli elementi centrali messi in luce è il concetto di “biforcazione della sovranità”: piccoli Stati che creano al proprio interno spazi normativi e fiscali meno regolamentati, rivolti a operatori stranieri, mantenendo formalmente la coerenza con le leggi europee. Una strategia che ha permesso al Lussemburgo di diventare un hub della finanza offshore pur essendo membro fondatore dell’Unione Europea. “In Lussemburgo si è sviluppata una forma di governance unica, dove l’informalità non ha impedito l’efficienza, ma anzi l’ha favorita. Le élite hanno saputo usare le regole europee a proprio vantaggio, applicandole selettivamente”, osserva Giacomin.

Il “potere di essere impotenti”

La ricerca offre anche una riflessione più ampia sulla condizione dei piccoli Stati, tradizionalmente percepiti come vulnerabili e dipendenti dall’esterno. Secondo la letteratura, però, queste stesse caratteristiche possono diventare leve: la ridotta dimensione consente processi decisionali più rapidi, una maggiore flessibilità normativa, e una forte coesione tra attori pubblici e privati. Nel caso lussemburghese, queste condizioni hanno favorito una “specializzazione senza manodopera”, puntando su settori ad alta intensità di capitale come i servizi finanziari. A questo si è aggiunto l’ingaggio di esperti stranieri nel processo legislativo, come l’economista belga Jeanne Chèvremont, che ha contribuito alla stesura della legge del 1988 sui fondi comuni e alla sua tempestiva traduzione in inglese: “Un vero strumento di marketing”, ha ricordato in un’intervista agli autori.

Riflessioni oltre il Lussemburgo

Il paper invita alla riflessione critica: le pratiche che hanno sostenuto la crescita del Lussemburgo e la sua specializzazione nel settore dei fondi d’investimento – come l’elusione fiscale o la sistematica accettazione di conflitti d’interesse – sono anche problematiche dal punto di vista etico. Non vengono proposte come “best practices”, ma come elementi chiave per comprendere come si costruisce un vantaggio competitivo in contesti ristretti. La conclusione apre anche a scenari comparativi: “Sono necessarie ulteriori indagini sui casi di altri piccoli Stati, come l’Irlanda”, suggeriscono gli autori, “per capire se questi modelli siano replicabili o se debbano il loro successo a circostanze storiche e politiche irripetibili”.

VALERIA GIACOMIN

Università Bocconi
Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche