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Regole, capitali e idee

, di Luca Enriques, Michele Chicco, Michele Fioretti, Pietro Masotti
Dai vincoli normativi che ostacolano il venture capital alla necessità di generare più idee imprenditoriali e promuovere la diversità, l’ecosistema delle startup europee è alla ricerca di nuovo slancio. A partire da B4i - Bocconi for Innovation, Bocconi punta su TEF, Tech Europe Foundation, per rafforzare l’ecosistema dell’innovazione.

Il diritto che frena il capitale

L’Europa soffre di un ritardo strutturale negli investimenti in nuove imprese rispetto agli Stati Uniti. Uno studio Bocconi rivela che il problema non è solo economico, ma giuridico: le regole societarie limitano la libertà contrattuale e ostacolano il Venture Capital

di Luca Enriques

Il Venture Capital (VC) è ampiamente riconosciuto come un motore fondamentale per l’innovazione e la crescita economica, in grado di sostenere startup high-tech e favorire la creazione di posti di lavoro. Mentre gli Stati Uniti vantano un mercato VC altamente dinamico, l’Europa fatica da tempo a tenere il passo, mostrando un divario persistente e significativo nei finanziamenti. Nuove ricerche, tuttavia, evidenziano un determinante chiave, spesso trascurato, di questa disparità transatlantica: il ruolo del diritto societario nell’ostacolare gli investimenti di Venture Capital.

I miei studi (svolti insieme a Tobias Tröger e Casimiro A. Nigro) approfondiscono la complessa relazione tra quadro giuridico e contrattualistica VC, con un’attenzione particolare a Germania e Italia come giurisdizioni rappresentative europee. La principale evidenza è che la sofisticata e presumibilmente efficiente architettura contrattuale alla base dei deal VC statunitensi — sviluppata in decenni per affrontare incertezze, asimmetrie informative e rischi morali tipici del finanziamento delle startup — risulta estremamente difficile da “trapiantare” nei contesti europei. Ciò genera un notevole “gap di funzionalità” tra gli accordi VC statunitensi e quelli europei.

Il principale ostacolo non è tanto rappresentato da esplicite disposizioni di legge (blackletter law), quanto piuttosto dalle interpretazioni pervasive che costituiscono il cosiddetto “diritto societario in azione”. Queste interpretazioni — elaborate da giuristi, notai, tribunali e arbitri — introducono spesso una rete di regole e standard impliciti di carattere obbligatorio che limitano la possibilità per le parti di costruire contratti VC ottimali. Di conseguenza, clausole tipiche degli accordi statunitensi come le azioni privilegiate convertibili, i dividendi automatici e cumulativi o le liquidation preference robuste sono per lo più considerate inapplicabili o di dubbia validità. Questo costringe venture capitalist e imprenditori a ricorrere a “soluzioni alternative inferiori”, meno efficaci e quindi meno vantaggiose.

Come spiegare questo fenomeno? Analizzando il diritto societario italiano, individuiamo una risposta nella sua cultura giuridica, influenzata da almeno quattro fattori. Primo, storicamente, la centralità delle banche nel finanziamento d’impresa ha favorito una domanda di norme rigide, senza pressioni per maggiore flessibilità. Secondo, l’interesse economico delle professioni legali gioca un ruolo: un quadro normativo complesso e vincolante aumenta la domanda dei loro servizi e dei relativi compensi. Terzo, la diffidenza verso i mercati tra le élite (anche giuridiche) contribuisce a un’avversione generale per l’autonomia privata. Infine, anche gli incentivi accademici hanno un peso: in un simile contesto, i giuristi ottengono maggiore riconoscimento “scoprendo” nuovi principi inderogabili che limitano la libertà contrattuale piuttosto che sostenendo il rispetto delle soluzioni già adottate dai privati.

Le conseguenze pratiche sono significative: il costo del capitale per le startup europee è più alto e il mercato VC meno dinamico. I tentativi di startup tedesche e italiane di aggirare questi vincoli interni incorporandosi all’estero risultano spesso costosi e poco pratici, soprattutto per le imprese nelle fasi iniziali, e non risolvono completamente il problema. È fondamentale sottolineare che i contratti formali non sono semplici linee guida: la loro effettiva applicabilità ha un impatto diretto sui rendimenti finanziari, soprattutto nei periodi di crisi, quando le controversie sono più probabili.

Per affrontare questa sfida, i policymaker devono andare oltre le tradizionali riforme di deregolamentazione. La nostra ricerca raccomanda invece misure proattive, come disposizioni legislative che proteggano esplicitamente gli schemi contrattuali VC di tipo statunitense da interpretazioni restrittive. Inoltre, la predisposizione di statuti standardizzati e legalmente vincolanti, allineati alle pratiche contrattuali del VC USA, potrebbe rafforzare significativamente il mercato europeo del venture capital, stimolando innovazione e crescita.

LUCA ENRIQUES

Università Bocconi
Dipartimento di Studi Giuridici

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