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Il soffitto di vetro delle founder

, di Michele Fioretti
Un nuovo studio rivela come obblighi familiari e minore accesso al networking continuino a ostacolare l’accesso al venture capital per le imprenditrici, nonostante le loro performance e il loro potenziale

In un mondo che celebra l’innovazione e l’audacia imprenditoriale, l’accesso diseguale al capitale resta una barriera di genere silenziosa ma persistente. Negli ultimi dieci anni, le startup fondate da donne negli Stati Uniti hanno guadagnato visibilità nel panorama del venture capital. Ma dietro i progressi apparenti si nasconde una realtà meno lusinghiera: sebbene il numero di deal conclusi da founder donne sia in crescita, l’ammontare medio di capitale raccolto resta significativamente inferiore rispetto alle startup guidate da uomini. Potremmo chiamarlo Gender Gap 2.0.

In un recente studio, Chuan Chen, Junnan He, Yanrong Jia e io affrontiamo questo squilibrio con un’analisi econometrica che combina teoria economica e dati inediti su startup e acceleratori. La nostra intuizione è tanto semplice quanto potente: considerare gli acceleratori come “college per startup”, capaci di segnalare agli investitori la qualità di un’impresa nascente. Stimando un modello di matching tra VC e startup — e i risultati post-accelerazione — siamo riusciti a isolare il ruolo del genere nella capacità di raccogliere fondi. Il risultato? Le startup con almeno una founder donna hanno minori probabilità di ottenere finanziamenti significativi, anche a parità di qualità osservabile.

Ma cosa si cela dietro questo divario? Il paper documenta un meccanismo spesso trascurato: la riluttanza — o l’impossibilità — di molte founder a trasferirsi in altri stati per accedere a maggiori opportunità di investimento. Il vincolo geografico, spesso legato a obblighi familiari, riduce le possibilità di networking, mentorship e contatti con investitori. Tuttavia, quando le imprenditrici riescono a superare i vincoli domestici e ad accedere a programmi più competitivi, il divario tende a ridursi nel tempo, segno che il problema non riguarda il potenziale imprenditoriale ma le condizioni iniziali di accesso.

Mettiamo inoltre in evidenza un aspetto più ottimistico: l’effetto positivo delle reti e delle dimensioni dei gruppi. Acceleratori con cohort più ampie e network consolidati aiutano a ridurre il divario, creando spazi in cui mentorship, apprendimento tra pari e capitale sociale diventano leve di equità di genere. In questo senso, le politiche di progettazione dei programmi di accelerazione dovrebbero includere strumenti di inclusione attiva. Un esempio concreto? Le donne che frequentano acceleratori di maggiore qualità tendono a colmare il divario entro cinque anni dall’ingresso, segno che la qualità dell’ambiente innovativo può fare la differenza.

I risultati del nostro studio vanno oltre l’analisi della divisione uomini-donne. Il nostro metodo è utile anche per comprendere meglio i fattori che fanno davvero la differenza per il successo di una startup. Non ci limitiamo a osservare dati visibili, come il settore di attività o il curriculum dei founder, ma siamo in grado di considerare anche variabili nascoste, come motivazione o reti di contatti. Questo approccio può essere utile anche in altri contesti: ad esempio, per comprendere le difficoltà di chi vive lontano dai grandi centri urbani o parte da condizioni svantaggiate.

Perché promuovere equità nel finanziamento non è solo una questione di giustizia. È anche una strategia per mobilitare talenti imprenditoriali inespressi e sostenere una crescita economica più inclusiva e resiliente. A parità di qualità, le startup fondate da donne tendono ad avere tassi di fallimento più bassi e la stessa probabilità di essere acquisite da grandi aziende rispetto a quelle fondate da uomini. Oggi più che mai, il capitale deve imparare a riconoscere il valore al di là dei pregiudizi. Perché il potenziale non ha genere, ma le opportunità spesso sì.

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