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La credibilità si guadagna sul campo

, di Andrea Celauro
Simone Sposato, alumnus Bocconi e Deputy Country Director di Emergency a Kabul, spiega come funziona l’intervento della ONG nel paese e su quali basi poggiano i rapporti con il governo locale. Con un solo obiettivo: curare chiunque ne abbia bisogno

Assicurare cure mediche a tutti, indipendentemente dalle fazioni, dai poteri e dalle rivalità, chiarendo fin da subito che non si parteggia per nessuno: così Emergency nei molti anni di lavoro sul campo nelle realtà di guerra (e non solo), si è ritagliata la propria credibilità: “Indipendenza mista a neutralità, questo è il carattere distintivo di Emergency. Noi entriamo in un paese con l’unico obiettivo di curare le persone”, spiega Simone Sposato, 31enne alumnus Bocconi che a Kabul è Deputy Country Director del programma di Emergency in Afghanistan.

In cosa consiste il tuo ruolo a Kabul?

Accanto al Country Director sono il responsabile di tutto il progetto di Emergency in Afghanistan, dove l’organizzazione è presente dal 1999. Il progetto vede la presenza di ospedali di Emergency presso tre città – due Centri chirurgici per vittime di guerra a Kabul e a Lashkar-gah, un Centro chirurgico e pediatrico e un Centro di maternità ad Anabah– più 40 cliniche di pronto soccorso e basic health care center sul territorio con servizio 24 ore al giorno, sette giorni su sette. Nell’insieme, dalla creazione delle diverse strutture, si tratta di quasi un milione e mezzo di pazienti curati negli ospedali e 6 milioni visitati nelle cliniche.

Come vi interfacciate con le istituzioni del paese per mettere in pratica la vostra missione?

Con le istituzioni c’è un dialogo costante, non sempre facile e lineare. Quando arriviamo, firmiamo un memorandum of understanding con il ministro della Salute, nel quale si chiarisce esattamente qual è il perimetro del nostro intervento. Qui in Afghanistan il rapporto è molto buono, anche perché siamo stati l’unica ONG che non ha lasciato il Paese nel 2001 (dopo l’attacco alle torri gemelle e l’invasione) né nel 2021 (con l’abbandono delle forze internazionali e la ripresa del potere da parte dei Talebani). Quando interveniamo in un paese ripristiniamo ospedali già esistenti o ne costruiamo di nuovi: l’idea è di prestare al paese know-how e strutture per formare medici, infermieri e staff in loco e consentire loro di fare pratica. In Afghanistan abbiamo quattro scuole di specializzazione (in chirurgia, pediatria, ginecologia ed ostetricia e in anestesia) e di fatto stiamo formando la nuova classe di medici afghani. E potremmo essere la prima ONG a fare specializzare una donna in anestesia a Kabul.

Assumete personale del luogo?

Il 60% dello staff medico sono infermieri: all’inizio la maggioranza veniva dall’estero, adesso sono tutti locali. Guardando all’insieme dei dipendenti oggi 1.758 sono locali e solo una cinquantina provengono dall’estero. A Kabul anche il medical coordinator è un locale. L’obiettivo finale è andarsene dal paese lasciando strutture funzionanti e autonome, gestite da personale competente.

Quali sono le sfide principali nella vostra attività?

Economiche, fondamentalmente. Il problema fondamentale è convincere i donatori istituzionali che l’Afghanistan ha ancora tremendamente bisogno di risorse: nei radar dei donor vi sono spesso o i paesi in guerra o quelli in via di sviluppo, mentre oggi l’Afghanistan è in una situazione di transizione. Sebbene non ci sia una guerra attiva, la maggior parte dei nostri interventi sanitari sono ancora legati alla guerra: ferite da mine, ordigni inesplosi e per la presenza di una forte criminalità. E, come sempre in tutte le guerre del mondo, il 90% delle persone colpite sono donne e bambini, al contrario di ciò che di solito si pensa. Abbiamo risorse limitate e a volte, chiacchierando con colleghi di altre ONG, vedo che gli altri si stupiscono sentendo di quante poche risorse disponiamo per fare ciò che facciamo.

Veniamo a te: sei arrivato a Kabul nel gennaio del 2024. Ma come sei arrivato ad Emergency?

Mi sono laureato in economia aziendale in Bocconi, ma ho sempre avuto un forte interesse per le istituzioni pubbliche e la sanità. Dopo la laurea sono entrato in azienda, ma dopo 8-9 anni, facendo il bilancio dei miei primi 30 anni, mi sono chiesto: “È davvero quello che voglio?”. La risposta è stata no. Ciò che davvero mi rende felice è aiutare gli altri e ho sempre avuto Gino Strada come mito e punto di riferimento. La notte prima del primo colloquio con Emergency ho capito che era la strada giusta. Era la mia prima esperienza nel non profit e per me era tutto nuovo.

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