Dal rigore accademico all’impegno civile: la rotta di Luca Poggi
Ventotto anni, un lavoro come economist and senior data analyst per T&E – ong che promuove a livello europeo trasporti ed energia a impatto zero, facendo pressione dal punto di vista legislativo – e una laurea del Des Bocconi con annessa un’esperienza presso il Laboratorio di ricerca sulle politiche di contrasto alla povertà (LEAP). Luca Poggi è giovane, ma sa perfettamente cosa vuole e come ottenerlo. È uno di quelli che, quando vede un’ingiustizia, non sa ignorarla o girarsi dall’altra parte, ma deve intervenire come può. Nel caso della drammatica situazione di Gaza, lo ha fatto mettendosi in gioco in prima persona, organizzando e poi imbarcandosi sulla Global Sumud Flottilla, che a settembre è partita per rompere il blocco navale di Israele sulla Striscia.
Cosa ti ha spinto a salire a bordo della Flotilla?
In realtà sono stato tra gli organizzatori. Avevo preso parte al Global Movement to Gaza, che è il movimento che tentò la spedizione via terra al valico di Rafah, dall’Egitto, che poi, come si sa, non è andata a buon fine. Tornati in Egitto, c’era comunque la volontà di fare qualcosa per la situazione in Palestina. Eravamo in contatto con la Freedom Flotilla e con il collettivo Sumud e ci siamo detti: “Via mare forse è un po’ più facile, ci vogliamo provare?”
La parola sumud significa resilienza: cosa rappresenta per te, dopo questa esperienza?
Per me resilienza è soprattutto l’esperienza del popolo palestinese, che nonostante tutte le sofferenze continua ad andare avanti. Il fulcro delle nostre azioni e delle nostre idee è stato il desiderio di aiutare quel popolo. Ed è stato questo l’obiettivo che avevamo ben chiaro in mente e anche, in qualche modo, il mezzo per continuare a darci fiducia e farci forza in situazioni complicate.
Tu sei più idealista o più pragmatico?
Io sono pragmatico, nel senso che sento il bisogno di agire per cambiare una situazione che non ritengo giusta. Poi, ovviamente, per farlo devi seguire una direzione, un’idea, quindi sì, questo vuol dire che bisogna essere anche un po’ idealisti.
Cosa hai scoperto di te stesso durante la missione?
Non era la prima azione alla quale partecipavo, ma di sicuro è stata la più grande e la più intensa: da un lato ho avuto la conferma che, quando si è determinati e si crede nei propri obiettivi, un modo per raggiungerli lo si trova, sebbene alla fine in Palestina non ci siamo arrivati. Abbiamo comunque lanciato un segnale forte al mondo e – forse – questo accordo di tregua (nel quale personalmente non credo molto) è stato spinto anche dalla pressione che abbiamo esercitato sui governi del mondo. Dall’altro, ho scoperto che è possibile avere paura senza esserne dominato.
Cosa intendi?
Nel senso che, a volte, la puoi accettare la paura, anziché rifuggerla, se per esempio fai parte di un gruppo numeroso che prova le stesse emozioni. Ci sono tre modi per affrontare la paura: cederle e quindi paralizzarsi, fuggire, oppure accettarla. Se credi nelle tue azioni e hai intorno a te un gruppo che si supporta, la paura ti rende lucido anche quando si tratta di prendere delle decisioni importanti, come quelle che sono state affrontate durante la navigazione.
Quali sono state le difficoltà nella fase organizzativa?
Mantenere un certo grado di riservatezza mentre cerchi di raggiungere tutto il mondo con la notizia della missione. Da un lato c’era un team di comunicazione incaricato di raggiungere personalità di tutto il mondo e di coinvolgerli in video da milioni di views, per sensibilizzare sul tema. Dall’altro, un team più operativo, di cui facevo parte, che andava in giro per l’Italia a comprare barche, cercando di restare sul vago sul perché dell’acquisto (ma non potendo neanche mentire). E poi, trovare chi le sistemasse, chi le portasse in Sicilia.
E in navigazione?
Gestire tutti i tipi diversi di persone da cui era formata la Flottilla. E non solo perché ci fossero persone con esperienze in barca molto diverse (c’era chi non era mai stato in barca e chi addirittura non sapeva nuotare), ma anche perché si trattava di personalità completamente diverse: un attivista che vive nei movimenti sociali, un europarlamentare, un capitano che vive in mare, un giornalista. Tante anime, che ovviamente vivono le situazioni e rispondono agli stimoli ognuna a suo modo.
Alla fine, però, l’obiettivo era talmente forte e condiviso che tutto è stato superato.
Esatto. Quello che mi preme sottolineare, quindi, è che non è che noi siamo salpati per la Palestina per fare un’esperienza di vita. Abbiamo messo a rischio innanzitutto la nostra incolumità, ma anche i nostri posti di lavoro e qualcuno anche il matrimonio. Ci siamo messi in gioco e non l’abbiamo fatto per noi stessi, ma perché si era andati veramente troppo oltre in una situazione di totale negazione dei diritti umani e di sofferenza immane.
Dopo questa esperienza è cambiato il tuo modo di intendere l’impegno civile?
Mi ha fatto capire l’importanza dell’essere uniti, della necessità di superare gruppi e fazioni per raggiungere un obiettivo comunque. E anzi, alla fine questa missione ha funzionato bene perché teste diverse hanno portato esperienze diverse.
Quindi ti ha insegnato anche un po’ di mediazione
Sicuramente, ma non mediazione nel senso di compromesso. Non l’incontrarsi a metà strada, ma il prendere insieme una strada diversa. E, se si è in tanti, magari costruirne una nuova dove non c’è. Inoltre, è stata un’esperienza che mi ha insegnato a concepire l’impegno civile come un impegno costante e permanente. Adesso che siamo tornati c’è fermento, vediamo consapevolezza nelle persone e quindi è il momento di continuare a impegnarsi finché la situazione non si sarà risolta del tutto.
In Bocconi tu hai studiato al Des (Discipline economiche e sociali) e hai fatto anche un’esperienza al LEAP, il Laboratory for Effective Anti-Poverty Policies. Queste esperienze hanno avuto un impatto nel tuo modo di concepire l’impegno sociale?
Sicuramente mi hanno lasciato due cose: il rigore e la tendenza a voler ricercare il miglior risultato possibile. Il non lasciare nulla al caso. E, in qualche modo, anche il pensare in grande.