White collar crime, dieci anni dopo
A oltre dieci anni dall'entrata in vigore del d.lgs 231/01 (che prevede la responsabilità diretta di enti e imprese per i reati commessi nell'interesse o a vantaggio degli stessi da amministratori, dirigenti ecc.), non è agevole misurare l'effetto di tale radicale innovazione sia sul versante della repressione di comportamenti illegali sia sulla capacità di conformare al rispetto della legalità l'agire dei soggetti economici. Alcuni dati suggeriscono però qualche riflessione, pur condizionata dal rilievo che non sono disponibili rilevazioni sull'effettiva applicazione giurisprudenziale del decreto. Scorrendo le principali riviste giuridiche che si occupano della materia, ci si avvede che le pronunzie giudiziali applicative del d. lgs. 231/01 all'esito del giudizio di primo grado sono un numero ridottissimo (due, tre decine). A questo dato va aggiunto quello (del tutto oscuro) rappresentato dalle decisioni con le quali il giudice sancisce l'intervenuto accordo fra le parti per l'applicazione delle sanzioni (c.d. patteggiamento), mentre se si vogliono considerare i provvedimenti di natura cautelare (sequestri, misure interdittive, ecc.) emessi nella fase delle indagini, la stima, pur ardua, non sembra superare le due centinaia.
Considerato l'ampio numero dei reati-presupposto della responsabilità ex d.lgs. 231/01, verrebbe da chiedersi se, contro ogni diversa valutazione, il nostro sia un paese nel quale il rispetto della legalità è un comportamento largamente diffuso, tanto da relegare al rango di eccezioni men che marginali le condotte illecite nei rapporti con la pubblica amministrazione, ovvero quelle in materia di market abuse o di trasparenza nell'informazione societaria, ovvero, ancora, nel settore dell'infortunistica sul lavoro. Trarre una conclusione così rassicurante sarebbe a dir poco avventato in mancanza di dati certi e affidabili, mentre è interessante domandarsi le ragioni per le quali, a fronte di una così bassa incidenza concreta della disciplina introdotta oltre dieci anni orsono, questa stessa disciplina abbia determinato un'impressionante mole di convegni, una quantità assolutamente inusitata di pubblicistica di vario tipo e livello, la creazione di attività e strutture di consulenza e supporto per imprese ed enti che hanno inteso dotarsi dei modelli organizzativi richiesti dal d.lgs. 231/01 per liberarsi dalla responsabilità e dalle sanzioni previste dal decreto stesso. Una risposta può forse essere azzardata. La corsa, almeno da parte delle imprese di dimensioni grandi e medio-grandi, all'adozione del modello organizzativo ex d.lgs. 231/01, testimoniata dal profluvio delle iniziative cui si è fatto cenno, potrebbe essere dipesa (anche) dalla valenza simbolica della disciplina e dalla severità delle sanzioni che pur in un numero percentualmente ristretto di casi sono state applicate. In altri termini: la minaccia della sanzione avrebbe comunque sortito il proprio effetto di conformare verso la legalità, spingendo le imprese a dotarsi di strutture e procedure coerenti con quelle richieste dal d.lgs. 231/01. Che tale risposta sia quella corretta è difficile dire: per verificare se la corsa all'adozione dei modelli organizzativi corrisponda a un'esigenza sostanziale e non rappresenti invece soltanto un formale ossequio alla legge, sarebbe necessario disporre di dati precisi in ordine alla effettiva applicazione del decreto e sottoporli a una approfondita analisi.