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Un timido benvenuto al Made in Italy per legge

, di Paolo Preti - docente di organizzazione delle piccole e medie imprese
Più che il paese d'origine conta il marchio dei produttori, che si stanno attrezzando per garantire qualità certificata

La legge Reguzzoni–Versace ha dato una risposta a quei piccoli imprenditori del tessile che la scorsa estate si erano mobilitati per ottenere la tracciabilità di un capo dichiarato "made in Italy", sulla falsariga di quanto acquisito dall'allora ministro dell'agricoltura Zaia con riferimento all'olio di oliva - da cui il termine "contadini del tessile".

Dell'etichetta d'ora in poi dovrebbe fregiarsi solo quel prodotto realizzato in Italia per almeno due delle quattro fasi lavorative identificate. La legge fa discutere: in Italia perché per molti è a maglie troppo larghe per poter tutelare veramente i piccoli fornitori della grande industria della moda abituata ormai in molti casi a produrre in Cina, Vietnam e Thailandia. E in Europa, dove deve raccordarsi con le esigenze di altri paesi e con la legislazione continentale in materia. Tuttavia si tratta sicuramente di un passo in avanti e la presenza tra i promotori di un membro influente di una famiglia storica della moda italiana, oggi anche presidente di Altagamma, sottolinea la buona volontà dei due mondi, grandi e piccole imprese del settore, di comprendere le rispettive esigenze. C'è però un'ulteriore area di azione che vede da tempo impegnate quelle piccole e medie imprese d'avanguardia, sempre alla ricerca di nuove frontiere da conquistare per difendere la propria posizione sul mercato, altrimenti destinata a indebolirsi. Viviamo un passaggio storico in cui per le aziende italiane, e soprattutto per le piccole, fare qualità, innovazione e servizio è modalità privilegiata per contrastare la concorrenza globale e presidiare da vincenti i mercati. Da tempo quote superiori ad ogni attesa di scarpe e vestiti italiani di qualità sono venduti, ad esempio, sul mercato cinese, mentre altre aziende calzaturiere e del tessile-abbigliamento nostrane subiscono l'insuperabile concorrenza dei prodotti di fascia bassa provenienti dal sud-est asiatico. Questi buoni risultati si ottengono più facilmente riportando all'interno delle aziende il maggior numero possibile di lavorazioni e, laddove ciò non sia fattibile o conveniente, rinforzando e dando continuità a rapporti con fornitori di qualità il più 'vicini' possibile. Di conseguenza per alcuni è necessario superare nei fatti, ovviamente non per legge, la dizione Made in Italy verso un'ancora più stringente identificazione con la singola azienda produttrice: un Made in seguito dal marchio dell'impresa. Ciò richiede investimenti a monte e a valle dell'intero processo produttivo. Se a valle c'è un problema di rafforzamento del marchio con la correlata necessità di un'adeguata comunicazione e di una coerente politica di vendita, è evidentemente a monte che si costruiscono le premesse del successo complessivo. Di certo nel prodotto acquistato dall'utilizzatore finale la qualità da garantire e da certificare è quella dell'intera filiera. La qualità del bottone di una camicia concorre, insieme a tutte le altre componenti, alla qualità del prodotto finito ed è logico cercare che il fornitore di quel particolare sia all'altezza della qualità complessiva. Molte aziende italiane in questi momenti stanno proprio per tale motivo investendo energie e risorse a favore del rapporto con i propri fornitori: c'è chi si impegna in un momento di difficoltà a garantire gli acquisti per sostenere l'attività, chi valorizza la qualità dei fornitori con prezzi superiori alla media del mercato, chi decide di sostenere la loro azione anche partecipando direttamente con investimenti di capitale. Ben venga dunque il Made in Italy certificato per legge, ma senza nasconderci dietro a un dito: il fronte nel frattempo si è già spostato più avanti.