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Oltre l’ufficio

, di Elena Gramano
Il lavoro può non essere più legato a un luogo fisico, ma resta plasmato da dinamiche di potere. Nell’era digitale, i diritti dei lavoratori devono seguire le persone ovunque si trovino, ridefinendo i confini tra subordinazione e libertà

Storicamente, il lavoro dipendente è stato definito dal luogo in cui si svolgeva. La presenza del lavoratore all’interno dei locali del datore di lavoro simboleggiava la subordinazione; giustificava una legislazione protettiva in materia di sicurezza, orari e controllo datoriale.

Negli ultimi anni, però, il lavoro ha superato quelle mura. Le tecnologie per il lavoro a distanza hanno permesso a milioni di persone di svolgere la propria attività da casa, da un caffè o da spazi di co-working. Questo modello “smart” o “agile” rappresenta la nuova frontiera dell’occupazione. Slega il lavoro da un tempo e da un luogo fissi, offrendo flessibilità ai lavoratori ed efficienza ai datori di lavoro.

Ciò che distingue questa nuova forma non è l’indipendenza dal datore di lavoro, ma l’autonomia nella subordinazione. I lavoratori restano giuridicamente vincolati dal contratto di lavoro, ma hanno ora un maggiore controllo su dove e quando lavorare. Il rapporto di lavoro persiste — ma i suoi simboli sono cambiati. La scrivania e l’orologio non ne definiscono più i confini.

E quando il lavoro si svolge ovunque e in nessun luogo, la tutela non può più dipendere da muri o turni. Deve seguire la persona, non il posto.

In questo contesto, il lavoratore “smart” (o remoto) incarna un paradosso. Liberato dall’ufficio, guadagna flessibilità, privacy e la possibilità di conciliare vita professionale e personale. Ma la stessa libertà può dissolvere i confini, esponendolo a nuove forme di pressione e sorveglianza.

La tecnologia ha reso facile per i datori di lavoro monitorare la produttività a distanza, tracciare gli accessi, misurare i tasti premuti e valutare le performance tramite algoritmi. Il tradizionale “potere direttivo” del datore di lavoro — un tempo esercitato faccia a faccia — è ora incorporato nei sistemi digitali. La subordinazione diventa invisibile ma pervasiva, esercitata attraverso i dati più che tramite comandi diretti.

Nel frattempo, le funzioni classiche del diritto del lavoro — proteggere la sicurezza fisica, limitare l’orario di lavoro, garantire il riposo — devono essere reinterpretate.
Cosa significa “salute e sicurezza sul lavoro” quando il luogo di lavoro è il tavolo della cucina? Come si può garantire il diritto alla disconnessione quando la connettività è la condizione stessa dell’impiego?

La redistribuzione dell’autonomia all’interno del rapporto di lavoro non elimina lo squilibrio di potere tra datore e lavoratore; lo trasforma. Il controllo datoriale non si esercita più attraverso la supervisione diretta, ma tramite l’architettura organizzativa — i sistemi, i processi e le piattaforme digitali che definiscono cosa deve essere fatto e come.

Anche nelle forme più flessibili, i lavoratori restano parte di una struttura che non controllano. Possono scegliere il luogo e il momento del lavoro, ma non il suo significato, i suoi obiettivi o i criteri con cui viene valutato.

Questa osservazione ridefinisce l’essenza stessa della subordinazione. Non si tratta più di una sorveglianza costante, ma di una dipendenza organizzativa — il fatto che sia il datore di lavoro a determinare il quadro entro cui il lavoratore opera. Il lavoratore “smart” può sembrare autonomo, ma la sua autonomia è procedurale, non strutturale.

Le implicazioni sono profonde. Il diritto del lavoro, nato per regolare i rapporti di potere all’interno di fabbriche e uffici, deve oggi confrontarsi con la complessa realtà del lavoro digitale e in rete. Deve tutelare non solo l’integrità fisica del lavoratore, ma anche la sua autonomia personale, la privacy e il tempo.

Allo stesso tempo, il contratto di lavoro, ben lontano dall’essere superato, rimane uno strumento di straordinaria flessibilità. Può adattarsi alla natura mutevole del lavoro, a condizione che il diritto evolva insieme a esso. Ciò che deve cambiare è la lente concettuale: dobbiamo intendere il “lavoro” non semplicemente come tempo e fatica scambiati con un salario, ma come una relazione sociale plasmata da potere, tecnologia e identità.

Il futuro del diritto del lavoro risiede nella sua capacità di agire come facilitatore dell’innovazione — un sistema che aiuti le società ad adattarsi alla trasformazione economica senza sacrificare equità e dignità.

La tutela dovrà diventare più personale, più portabile e più in sintonia con le realtà della vita digitale. Dovrà tenere conto di lavoratori al tempo stesso autonomi e subordinati, connessi e isolati, flessibili ma precari.

Il lavoro ha ormai oltrepassato i confini della fabbrica e dell’ufficio. Vive oggi tra nuvole, reti e dispositivi, negli spazi fluidi tra vita professionale e privata. Il compito del diritto — e della società — è garantire che, mentre il lavoro evolve, il suo nucleo umano non scompaia.

Autonomia senza protezione è fragilità; subordinazione senza libertà è sfruttamento.

 

foto Elena Gramano

ELENA GRAMANO

Università Bocconi
Dipartimento di Studi Giuridici