Un nuovo look per la buona finanza
Per la corporate governance non esiste un modello prêt-à-porter: struttura e processi vanno adattati alle caratteristiche delle singole aziende, alle loro strategie e agli eventi, mutevoli, che disegnano lo scenario.
Resta il fatto che, come sostiene l'Ocse dagli anni Novanta, la buona governance favorisce la crescita e l'efficienza e aumenta la fiducia degli investitori. Ma se è piuttosto facile identificare esempi di cattiva governance (quasi tutti gli scandali societari ne sono una manifestazione perché un comportamento scorretto è spesso riconducibile in ultima istanza a un sistema di governo debole o a sua volta manipolatorio delle regole), più arduo è delineare uno stile di governance di qualità.
Poco tempo fa il Financial Times ha ospitato un acceso dibattito scaturito dalle affermazioni di Sergio Ermotti, ceo di Ubs, il quale sosteneva che le banche devono mantenere un atteggiamento positivo verso il rischio senza temere di commettere errori – purché in buona fede – evitando di diffondere una cultura della paura di sbagliare, che può compromettere il raggiungimento degli obiettivi aziendali.
Nel mondo della finanza un corretto atteggiamento verso il rischio, determinato da adeguate scelte di governance, è in effetti fondamentale e sembrano averlo ben compreso i regolatori, fortemente impegnati nell'indirizzare le scelte di configurazione e di operatività dei board bancari per evitare nuove crisi. Che cosa è mancato finora? Forma e sostanza, per dirla in breve. Sul primo fronte, ciò che si auspica – o si impone – è una ridefinizione dei criteri di composizione e dei processi di governance secondo un modello ragionato e strutturato (un progetto di governance) che tenga conto della dimensione e complessità della banca e del suo modello di business, delle strategie e dei rischi. Da esso devono discendere una chiara suddivisione di ruoli e responsabilità, deleghe definite e processi decisionali tracciati e quindi ricostruibili ex post: da quelli di selezione e nomina degli amministratori a quelli di autovalutazione periodica dell'adeguatezza degli organi e dell'efficacia del loro operato. Una forma non fine a se stessa dunque, ma sinonimo di sostanza e in grado di generare evidenze utili in un'ottica di miglioramento continuo. Sul secondo fronte, quello della sostanza, si sollecitano non solo una diversificazione dei profili e un affinamento delle competenze dei consiglieri ma soprattutto una maggiore capacità e volontà degli stessi di attivarle per alimentare il dibattito in seno agli organi, per sfidare il management sulle scelte di gestione, per esprimere una leadership utile a indirizzare le strategie e a controllarne l'esecuzione, nel quadro di una sana e diffusa cultura del rischio.
Tutto ciò porterebbe ad avere meno consigli pletorici e culturalmente omogenei, con un ruolo per lo più di ratifica o di acritica approvazione dell'operato del management esecutivo, e più organi in grado di prendere buone decisioni attraverso un confronto ampio, vivace e costruttivo che garantisca uno sviluppo equilibrato e sostenibile dell'impresa nel lungo periodo. Con l'entrata in vigore della Direttiva europea Crd IV i supervisori delle banche hanno tutti gli strumenti per imporre un simile cambiamento e per far rispettare le regole e i principi di buona governance: da sanzioni monetarie molto elevate al potere di sospendere o rimuovere singoli amministratori, sino alla possibilità di penalizzare le banche meno virtuose con più elevati requisiti patrimoniali. Resta il fatto che «fare banca per bene», come recita lo slogan di un grande istituto, presuppone necessariamente il rispetto di principi di correttezza, trasparenza e accountability verso le controparti, tutte le controparti e non solo gli azionisti-investitori. La buona finanza non può che nascere dal buon governo della finanza, che implica la massima consapevolezza e un forte senso di responsabilità da parte di tutti coloro che a questo sistema di governo partecipano a vario titolo.