
Tassi in salita? Le imprese con mutui variabili alzano i prezzi
Nel 2022 la Banca Centrale Europea ha premuto sull’acceleratore: in pochi mesi, il tasso sui depositi è passato da -0,5% al 4%, nel tentativo di riportare sotto controllo un’inflazione schizzata oltre il 10% in diversi paesi dell’Eurozona. Eppure, in molti settori i prezzi sono rimasti sorprendentemente rigidi. Come mai?
Una risposta arriva dal paper Inflation and floating-rate loans: evidence from the euro-area, firmato da Fabrizio Core (Luiss), Filippo De Marco (Bocconi, nella foto), Tim Eisert (Nova School of Business and Economics) e Glenn Schepens (European Central Bank,), pubblicato nella Working Paper Series della Banca Centrale Europea. Il lavoro mostra un meccanismo finora trascurato nei modelli macroeconomici: la trasmissione della politica monetaria può incepparsi quando le imprese sono esposte a prestiti a tasso variabile.
“Le imprese con mutui indicizzati non tagliano i prezzi dopo un rialzo dei tassi”, spiega Filippo De Marco, Associate Professor di Finanza, “al contrario, potrebbero addirittura aumentarli per compensare l’aumento del costo del debito”. È un comportamento razionale, ma che compromette l’obiettivo principale della BCE: raffreddare la domanda e quindi i prezzi.
Il cuore dello studio
Per arrivare a questa conclusione, gli autori hanno incrociato tre enormi banche dati: i registri creditizi europei (AnaCredit), che tracciano ogni prestito alle imprese sopra i 25.000 euro; i dati sull’inflazione settoriale (CPI, da Eurostat); e, forse più interessante, i prezzi effettivi di oltre 270.000 prodotti venduti nei supermercati in Italia, Germania e Francia tra il 2020 e il 2023, raccolti tramite scanner ottici alla cassa (IRi).
Il risultato? L’impatto di un rialzo dei tassi sui prezzi dipende in modo significativo dal tipo di prestito bancario di cui le imprese si avvalgono. In media, un aumento di 1 punto percentuale nei tassi BCE provoca un calo dello 0,51% nei prezzi praticati dalle imprese con finanziamenti a tasso fisso. Ma per le imprese con mutui a tasso variabile, il calo si riduce a appena lo 0,23% – meno della metà.
Un esempio da scaffale
Prendiamo un prodotto come lo yogurt. Se lo yogurt “marca X” è prodotto da un’impresa con mutui a tasso fisso, è probabile che il prezzo venga rivisto al ribasso quando aumentano i tassi. Ma se lo yogurt “marca Y”, identico per tipo e categoria, è prodotto da un’azienda con mutui variabili, il prezzo resta invariato – o addirittura cresce. La differenza non sta nel prodotto, né nel consumatore. Sta nella struttura del debito aziendale.
“Non è solo un’anomalia statistica”, chiarisce De Marco, “ma un meccanismo strutturale. Se il tuo costo del capitale aumenta di colpo, e hai un po’ di potere sul mercato, alzi i prezzi per salvare la liquidità”.
Il caso italiano
Il fenomeno è particolarmente rilevante per l’Italia, dove circa il 60% dei prestiti alle imprese è a tasso variabile. In Germania e Francia, al contrario, la maggioranza dei prestiti è a tasso fisso (oltre il 70%). Questa differenza ha implicazioni enormi. I ricercatori calcolano che, se tutte le imprese europee avessero avuto la stessa esposizione ai tassi fissi dei paesi “core” (Germania, Francia e Belgio), l’inflazione nel 2022-2023 sarebbe stata più bassa di 0,8 punti percentuali. “Una differenza che avrebbe potuto accelerare in modo significativo il ritorno verso l’obiettivo del 2%”, commenta De Marco.
Quando il potere di mercato fa la differenza
Il paper mostra anche che non tutte le imprese con mutui variabili riescono ad alzare i prezzi. Solo quelle che hanno un certo “capitale cliente” – cioè una base di consumatori fedeli, poco sensibili al prezzo – riescono a trasferire i costi senza perdere quote di mercato. Nei mercati più competitivi, invece, le imprese non possono permettersi di rincarare i prezzi, pena il rischio di essere subito sostituite da concorrenti più aggressivi.
Effetti collaterali: rinegoziazioni e margini
Un altro dato interessante riguarda il comportamento finanziario delle imprese. Quelle esposte ai tassi variabili, dopo l’aumento dei tassi, hanno rinegoziato più spesso le condizioni dei prestiti, cercando di abbassare gli spread o convertire i prestiti in tasso fisso. Ma questo avviene a posteriori, quando il danno (in termini di interessi più alti) è già in corso. Inoltre, il margine operativo (EBIT/sales) delle imprese con mutui variabili è aumentato, ma non la loro redditività netta (ROA), segno che l’aumento dei prezzi serve solo a pareggiare i conti con le banche, non ad arricchirsi. Nessuna “greedflation”, insomma – solo difesa della sopravvivenza finanziaria.
Le implicazioni per le banche centrali
Il messaggio finale dello studio è netto: la politica monetaria non è neutra rispetto alla struttura dei debiti aziendali. In un sistema dove molti prestiti sono a tasso variabile, la reazione delle imprese ai rialzi dei tassi può diventare pro-inflazionistica nel breve periodo, anziché disinflazionistica. Per rafforzare la trasmissione della politica monetaria, una soluzione possibile è favorire la diffusione dei tassi fissi. Oppure agire sulla concorrenza di mercato: dove c’è competizione vera, anche le imprese indebitate non possono permettersi di alzare i prezzi. “Un’attenzione più esplicita alla composizione del credito aziendale dovrebbe entrare nel radar delle banche centrali”, conclude De Marco. “Perché in un mondo dove l’inflazione è tornata, anche i dettagli del credito contano”.