Se S&P largheggia con i trenta
La crisi dei mercati finanziari degli scorsi mesi ha tra le sue vittime anche le agenzie di rating, accusate di avere sottovalutato il rischio dei titoli asset backed, garantiti da mutui e altre attività finanziarie non liquide ed emessi da società veicolo specializzate. Le agenzie sono state costrette a rivedere decine di rating in poche settimane, che è un po' come ammettere che i giudizi originari non fossero sufficientemente accurati.
L'opinione pubblica italiana ha una lunga storia di dissapori con le agenzie. Ogni volta che il rating della Repubblica è stato rivisto al ribasso, qualche esponente del governo in carica, ligio al principio che le febbre si cura spezzando il termometro, ha mugugnato all'indirizzo di questi vili tecnocrati, insensibili alle promesse della politica e pedanti nel fare di conto. Poi c'è stato il dissesto di Parmalat e qualcuno ha gridato al tradimento, scambiando l'opinione di Standard & Poor's per una certificazione di bilancio. Ma ora è il ruolo stesso delle agenzie ad essere messo in discussione in Europa come negli Usa, la loro capacità di produrre giudizi corretti e affidabili. E ciò proprio mentre il nuovo accordo di Basilea propone di utilizzare i rating per finalità di vigilanza pubblica sulle banche.
Le accuse sono diverse. La prima è che le agenzie vengono pagate dagli emittenti dei titoli oggetto di rating: vi è dunque il rischio che il loro giudizio sia condizionato dal cliente. La seconda è che le grandi agenzie operano in un insano regime di oligopolio (le principali tre si dividono l'80% circa del mercato mondiale). La terza è che le loro valutazioni, pur provenendo da soggetti privati, sono prese a riferimento da diverse normative pubbliche.
La prima obiezione fa sorridere chi, come me, eroga voti per mestiere. I miei studenti non pagano la retta perché regalo trenta e lode, ma perché i voti dell'università per cui lavoro sono considerati credibili dalle aziende che investono nei laureati. Se dispensassimo voti ingiustificatamente elevati, forse riusciremmo a incrementare per breve tempo le entrate, ma inizieremmo a produrre disoccupati e finiremmo per chiudere per mancanza d'iscritti. Analogamente, le sorti delle agenzie non dipendonodagli emittenti, ma degli investitori.
L'oligopolio, poi, non è necessariamente un male, perché rafforza la posizione delle agenzie di fronte ai loro clienti: se le autorità favorissero l'avvento di nuove società di rating finirebbero per mettere sotto pressione l'equilibrio e l'obiettività di quelle esistenti. Più pericoloso, se mai, è l'oligopsonio, ovvero la presenza sul mercato di alcuni grandi buyer di rating, potenzialmente in grado di condizionare le agenzie. La vituperata Parmalat produceva meno dell'1% dei ricavi di Standard & Poor's in Italia: davvero troppo poco per indurla a giocarsi la reputazione. Ma quando sul mercato delle obbligazioni asset backed molte emissioni fanno capo a un ristretto gruppo di advisor, è possibile che questi acquistino potere eccessivo.
Infine, la decisione di utilizzare i rating a fini normativi rappresenta una scelta delle autorità, non delle agenzie. Se, dopo aver ascoltato il professor Onado, noto esperto di calcio della nostra università, scommetto sulla vittoria del Milan e perdo, non posso prendermela con lui per averlo considerato autorevole. Posso cercare un altro esperto o decidere da solo, in entrambi i casi, non è detto che il risultato migliori.
Tutto ciò non significa che il modello di business delle agenzie non possa cambiare nel tempo (fino agli anni '70, i rating erano pagati dagli investitori, non dagli emittenti). Ma non basta inventarsi qualcosa di diverso: bisogna trovare qualcosa di meglio.