Se Penelope tesse acqua
Negli ultimi 20 anni, la gestione dei servizi idrici in Italia è stata un cantiere aperto: non nel senso delle opere (si investe un quarto di quel che si dovrebbe), ma nel senso istituzionale. Anni passati nel tentativo di far funzionare un modello, imperniato sull'autonomia della gestione dalla politica e sull'autosufficienza economica e finanziaria, da conseguirsi con l'accorpamento territoriale e l'organizzazione delle gestioni secondo logiche industriali.
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Antonio Massarutto |
Gli adempimenti richiesti dalla riforma sono lentamente andati a regime, evidenziando però criticità e difetti. Nel frattempo, le regole del gioco sono cambiate di continuo. Sono intervenute direttive europee e riordini della normativa nazionale in campo ambientale. È intervenuto il confuso federalismo della riforma del Titolo V, con uno strascico di conflitti di attribuzione tra stato e regioni. Negli ultimi tre anni, l'alacrità di Penelope è divenuta frenesia. Prima una legge ha tentato di imporre il modello della gara, decretando la cessazione di ogni gestione pubblica con affidamento diretto.
Contro questa norma, per molti versi criticabile, si è scatenato un movimento trasversale, culminato nei referendum; che non hanno cancellato solo la nuova norma, ma hanno esagerato nel senso opposto, abolendo un'altra norma che stabiliva che la tariffa deve assicurare l'adeguata remunerazione del capitale investito. Un modo per affermare che non è ammissibile fare profitto sulla fornitura dei beni essenziali. La gara non è più obbligatoria, il profitto non è più garantito. Ergo: gestione pubblica e finanza pubblica, nelle intenzioni referendarie. Le quali, peraltro, sottovalutavano le esigenze che avevano determinato la riforma del 1994: crescente difficoltà di finanziare la spesa attraverso il bilancio pubblico, esigenza di costruire gestioni autosufficienti. Sostenere i servizi idrici senza ricorrere al mercato finanziario non era immaginabile prima e lo è ancor meno adesso, vista la crisi delle finanze pubbliche.
Ma c'è dell'altro: le gestioni pubbliche vengono assoggettate agli stessi vincoli e limiti all'indebitamento che il Patto di stabilità interno impone agli enti locali. Dunque, non solo non possono più finanziarsi attraverso la fiscalità generale, ma nemmeno attraverso il mercato (se non entro i limiti all'indebitamento concessi a ciascun comune). Dunque, ciò che il referendum ha cacciato dalla porta, rientra dalla finestra sotto forma di vincoli che rendono, di fatto, impossibile la gestione pubblica. Nel frattempo il governo ha riorganizzato le competenze regolatorie, chiudendo la debole e inconcludente Commissione di vigilanza e attribuendo le competenze tariffarie a un'autorità indipendente, l'Aeeg (Autorità per l'energia elettrica e il gas). Trovare un equilibrio tra l'esigenza di rispettare il voto e quella di garantire l'equilibrio finanziario delle gestioni e la ripresa degli investimenti non sarà facile.
L'Aeeg ha dato prova di grande attivismo e dopo pochi mesi ha pubblicato norme incisive in materia tariffaria, pur suscitando malumori sia nei gestori che nel fronte referendario più oltranzista. La speranza è che l'Aeeg possa capitalizzare nel settore idrico la credibilità già conquistata nei settori energetici, rasserenando gli investitori, fin qui rimasti alla finestra per via dell'instabilità delle regole e dell'imprevedibilità del comportamento dei regolatori, ma anche garantendo i cittadini. Sperando che, nel frattempo, la furia tessitoria della politica-penelope e lo scontro tra gli opposti estremismi si plachino.