Tassare il digitale (senza rompere il sistema)
Il sistema fiscale tradizionale, basato sulla tassazione delle multinazionali laddove viene prodotto valore, è entrato in crisi con l’avvento dell’economia digitale. Da oltre un decennio, organismi internazionali quali OCSE e G20, coalizzati nel tentativo di risolvere i fenomeni elusivi legati alle lacune legislative di alcuni ordinamenti e all’assenza di tassazione in altri, cercano di trovare un accordo sull’allocazione dell’imponibile delle imprese multinazionali che operano nel settore digitale. Eppure, malgrado l’ampio consenso politico formale, non è stata ancora individuata una soluzione tecnica capace di soddisfare i diversi interessi nazionali.
Un punto di incontro è stato trovato sulla tassazione minima globale di matrice OCSE, già adottata dall’Unione Europea e numerose altre nazioni, con l’obiettivo di tassare tutte le grandi imprese multinazionali ad un’aliquota effettiva pari almeno al 15%. In Paesi come l’Italia, tuttavia, i costi di compliance per le imprese superano talora i benefici erariali percepiti, e l’efficacia della manovra risulta attenuata dall’assenza di due attori chiave: Stati Uniti e Cina. L’altra proposta dell’OCSE, volta a riallocare parte dei profitti delle multinazionali nei Paesi dove risiedono utenti e consumatori, per riflettere il valore aggiunto che questi offrono nelle catene del valore delle imprese digitali, rimane in stallo.
Il vuoto multilaterale ha spinto molte giurisdizioni verso soluzioni unilaterali, come ad esempio le imposte sui servizi digitali sul fatturato delle società tecnologiche. Questi tributi, però, alimentano attriti commerciali con gli Stati a più elevata densità di Big Tech. Emblematico è il disegno di legge federale statunitense, Section 899 “One Big Beautiful Bill” 2025, che prevede il black-listing di alcune DST straniere e sovra-tasse fino al 20% sui redditi da esse provenienti, affiancato dal riattivato arsenale dei dazi ex-Section 301. La diplomazia fiscale diviene così leva di politica industriale, aggravando la tensione transatlantica.
L’Intelligenza Artificiale (AI) generativa aggiunge ulteriori complessità. Dottrina e policy-maker propongono di tassare le catene del valore algoritmiche, allocando l’imponibile in base alla provenienza dei dati d’addestramento e alle query locali: un nexus informazionale che affiancherebbe la presenza fisica. L’amministrazione finanziaria italiana emerge in maniera avanguardistica, anticipando un modello pay-for-access che valorizza il dato quale corrispettivo economico, nell’ambito della normativa IVA, riconoscendo quindi lo scambio “dati contro servizi gratuiti” come una permuta soggetta ad imposizione. Parallelamente, l’AI funziona anche a servizio dei controlli. Attraverso strumenti di machine learning è infatti possibile individuare comportamenti scorretti da parte dei contribuenti, incrociando ad esempio dati relativi a fatturato, flussi di pagamento e metadati di rete. Tutto ciò si scontra, tuttavia, con i limiti posti da GDPR, AI Act e normative domestiche sulla protezione dei diritti fondamentali, che impongono bilanciamenti fra efficacia tributaria e tutela del contribuente.
In questo scenario di grande incertezza, le imprese reagiscono attraverso una forma di compliance strategica, che prevede la collaborazione con il fisco, puntando su un dialogo preventivo con le autorità per ridurre incertezza e sanzioni, e investimenti in tax technology, trasformando così il “dato fiscale”, precedentemente riconosciuto come strumento di pura compliance, in un potenziale asset competitivo.
Si osserva quindi un cantiere normativo in rapida evoluzione. La sfida per il futuro è progettare un sistema impositivo innovativo ma coerente con i principi di equità, neutralità e proporzionalità, capace di catturare la nuova ricchezza digitale senza soffocarne l’espansione e di sostenere la coesione sociale in un momento in cui la revisione dei rapporti multilaterali, sia commerciali che fiscali, è divenuta imprescindibile.