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Snaturato da fretta, algoritmi e storytelling, il settore rischia di promuovere ignoranza invece che valore. È tempo di restituirgli anima, visione e responsabilità sociale

Nella nostra società l’ignoranza sembra essere diventata un valore, una pratica giornaliera, con conseguente decadimento del livello culturale ed etico del mondo in cui viviamo. A questo fenomeno ha contribuito la diffusione di princìpi e strumenti di marketing originariamente concepiti per migliorare i rapporti fra le imprese e i propri clienti, che però, applicati in modo distorto ed improprio, hanno contribuito a impoverire il valore della conoscenza, compromettendo lo spirito critico, la capacità di ragionamento, di scelta ed assunzione di responsabilità, degli individui.

Per fare un esempio, Amazon ha costruito il suo successo sulla capacità di offrire ai propri clienti velocità, semplicità, personalizzazione, proposta proattiva di consigli e suggerimenti. Tuttavia, questo modello ha alimentato la creazione di un’“era dell’impazienza” in cui vasti strati della popolazione vogliono avere tutto e subito. La velocità è diventata fretta, e la frettolosità si traduce ad esempio in un eccesso di brevità nel sistema dei media, che ostacola nel pubblico la capacità e volontà di analisi ed approfondimento, e persino di dialogo. La semplicità di fruizione favorisce il diffondersi dell’insofferenza verso la fatica e lo sforzo, e l’abitudine a ricevere proposte basate su algoritmi favorisce un quotidiano allenamento alla delega, alla passività ed al conformismo.

Il contributo dell’applicazione di concetti e metodi di marketing alla promozione di ignoranza nella nostra società stimola una riflessione più generale su come il mondo del marketing aziendale rischia di perdere la propria identità ed anima, venendo snaturato per diversi motivi interdipendenti. 

Il primo è una interpretazione troppo riduttiva del marketing come pura e semplice comunicazione, anziché come una disciplina finalizzata a comprendere e creare valore per i clienti. Ciò può portare a un eccesso di attenzione alla forma (che è importante) rispetto alla sostanza (che è fondamentale) e al dominio della narrazione emotiva rispetto alla essenziale rappresentazione dei fatti. 

Il secondo è una eccessiva frammentazione delle decisioni e attività di marketing, spesso subappaltate a una pletora di agenzie e soggetti esterni iperspecializzati, ai quali manca una reale regia di fondo responsabilizzabile sul raggiungimento o meno degli obiettivi. La micro-parcellizzazione decisionale e operativa tende a far perdere di vista i temi realmente strategici, quali la segmentazione, il posizionamento, l’innovazione di mercato.

Un terzo fattore problematico è la focalizzazione sul breve periodo: lo sviluppo degli strumenti tecnologici (canali digitali, automatizzazione, algoritmi) permette di conseguire vantaggi di velocità analitica e decisionale attraverso la comprensione in tempo reale di molti fenomeni (in particolare le relazioni causa-effetto fra decisioni e azioni di marketing e risposte dei clienti), ma rischia anche di indurre a valutazioni affrettate, dettate dall’impazienza. Le scelte strategiche non possono né devono essere valutate nell’immediato, non si misurano contando i like ad un post sui social media. Ciò si accompagna al predominio della dittatura dei risultati trimestrali, che disincentiva il pensiero realmente strategico, l’ottica di lungo periodo e l’assunzione di rischio, stimolando invece il ricorso a scorciatoie e delegando a terzi (in particolare influencer, testimonial e content creators esterni) il contributo alla creazione di vantaggio competitivo e differenziazione. 

Quarto: la disponibilità diffusa di informazioni, spesso eccessive al punto da ostacolare l’assunzione di decisioni, tende ad uniformare gli approcci fra aziende diverseCiò genera circoli viziosi di ripetitività imitativa che finiscono con il ridurre l’innovazione in tutte le leve di marketing, anche come conseguenza dell’adozione generalizzata degli algoritmi. 

Infine, un ulteriore e decisivo elemento di rischio per il marketing è la disumanizzazione indotta dal ricorso a strumenti tecnologici ed automatizzati per l’assunzione di molte decisioni. Questo fenomeno è aggravato dalla diffusione dell’intelligenza artificiale. 

Tutti questi fattori concorrono a generare il rischio di snaturare e impoverire il senso stesso del marketing nelle aziende, che dovrebbe invece essere quello di orchestrare l’intera organizzazione intorno alla centralità dei clienti. La sfida, o meglio l’opportunità, consiste nel recuperare e promuovere un ruolo di maggiore responsabilità del marketing, nelle imprese e nella società. Per citare due esempi emblematici: rispetto a temi oggi centrali per le aziende come la digitalizzazione e la sostenibilità le funzioni marketing e commerciale hanno spesso un ruolo secondario, se non marginale, rispetto ad IT e supply chain. In tal modo si rischia di perdere il treno di come trasformare questi due fenomeni in elementi decisivi per il progresso individuale e della collettività. 

È tempo per i marketing managers di interrogarsi sul significato profondo del proprio mestiere, di recuperarne quelle prerogative che lo rendono, potenzialmente, fra i più interessanti e arricchenti del panorama manageriale e di riflettere più criticamente sulla propria responsabilità e sull’impatto delle proprie decisioni ed azioni nei confronti della collettività.