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Santarcangelo, 10 giorni che durano un anno

, di Claudio Todesco
Silvia Bottiroli, direttore del festival del teatro in piazza, spiega come si crea il legame con il territorio

Un festival che dura dieci giorni può vivere sul territorio in modo continuativo durante l'anno? Qual è il modo migliore per mettere in connessione artisti internazionali e contesto locale? È possibile trasmettere alla comunità il senso d'avventura e rischio insito in ogni nuova creazione artistica? Sono alcune tra le domande che si è posta Silvia Bottiroli, docente non accademica di corsi CLEACC e ACME, quest'anno direttrice artistica per la quinta e ultima volta di Santarcangelo Festival Internazionale del Teatro in Piazza, manifestazione dalla storia ultraquarantennale che dall'8 al 17 luglio investigherà la possibilità che l'arte crei mondi immaginari.
L'idea di vivere sul territorio in modo continuativo è cruciale per un festival nel 2016?
Sì, perché contiene questioni fondamentali. I festival sono spesso soggetti paradossali: devono tenere insieme un radicamento territoriale molto forte e una dimensione internazionale, l'appartenenza a un territorio e alla più ampia comunità degli artisti. E poi, da un lato c'è un grande potenziale nell'essere un evento denso che accade in un periodo definito, dall'altro c'è il problema di trovare voce e legittimità per contribuire a dibattito culturale in un periodo più lungo.
A quale bisogno risponde l'idea che un festival non debba esaurirsi nel giro di pochi giorni?
Un festival che ha un tempo di progettazione e produzione ampio come il nostro, o come altri in Italia, ha un potenziale non si esaurisce in dieci giorni. L'anno scorso, ad esempio, abbiamo inaugurato un progetto editoriale per rendere fruibili contenuti che fanno parte del farsi del festival, processi di lavoro che possono essere nutrienti anche per il pubblico. E poi c'è il tema della sostenibilità: per un'organizzazione culturale finanziata pubblicamente è problematico pensare di avere un impatto sul pubblico solo pochi giorni all'anno. Abbiamo la responsabilità di essere soggetti che agiscono cambiamento nella società in modo più continuativo.
Così facendo il festival diventa contesto, ambiente?
Sì, ed è l'alternativa reale all'idea di festival come vetrina di lavori. È la possibilità di creare un clima che permette alla città di sviluppare progettualità anche diverse da quelle strettamente artistiche.
Qual è la sfida più interessante che si trovano di fronte le organizzazioni culturali italiane?
Il ripensamento del rapporto coi pubblici, intesi non più solo come fruitori di un'offerta culturale, ma anche come possibili co-creatori. È uno dei grandi temi da ripensare. È un po' riduttivo ritenere che solo le organizzazioni culturali abbiano il diritto e la responsabilità di creare lavori e che le comunità debbano trovare la loro strada per fruirli. Per una società in radicale mutamento è importante immaginare di costruire dispositivi dentro i quali si possa cominciare ad ascoltare di più il pubblico. Va messa in discussione l'idea stessa di organizzazione artistica o culturale.