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Romanticismo e competitivita' stabiliscono dov'e' fatta l'auto

, di Carlo Alberto Carnevale Maffe' - professore di strategia e imprenditorialita' alla SDA Bocconi
Fiat e dintorni. Cambia il settore, cambiano le strategie

Si fa presto a dire Made in Italy. Negli anni della globalizzazione trionfante, il concetto di Made in ha visto trasformarsi profondamente il suo significato economico e culturale, vedendo progressivamente erodere la sua connotazione di identità territoriale e trasformandosi in un'opzione organizzativa, quasi accidentale, all'interno di una catena logistica complessa e geograficamente distribuita. Il brand aziendale, si è predicato per anni dai pulpiti del marketing, doveva sostituirsi alla denominazione di origine geografica delle merci nel ruolo di garanzia di qualità: il Made in doveva diventare Made by, e il riferimento non doveva essere più una nazione, un territorio, ma una marca, un'organizzazione. Ma la lezione della grande crisi economica di questi anni, con i suoi rigurgiti di protezionismo e mercantilismo, ha insegnato ai manager più avveduti l'opportunità di tornare a considerare il lavoro manifatturiero un fondamentale fattore di arbitraggio sul mercato nazionale ed internazionale delle politiche fiscali e dei sussidi alle aziende.

Per la grande impresa manifatturiera, oggi più che mai, il lavoro è merce di scambio politico e istituzionale. E la grande sfida industriale è quella di coniugare i vincoli di una filiera che impone economie di scala e rigorose razionalizzazioni produttive con il rinnovato ruolo degli stati nazionali nelle politiche di protezione dell'occupazione.Il caso dell'industria automobilistica è esemplare in tal senso. Durante il periodo più acuto della crisi economica, i paesi europei, Francia e Germania in testa, sono andati in soccorso delle rispettive industrie automobilistiche nazionali con interventi di sussidio più o meno diretto, infischiandosene delle normative europee che vietano gli aiuti di stato alle imprese, con le autorità preposte alla tutela della concorrenza rese di fatto innocue dall'emergenza finanziaria globale. Nel settore auto in profonda crisi, la tutela del Made in è diventata la giustificazione politica per interventi di protezione dell'occupazione. In Italia Fiat, alle prese con una crisi di mercato troppo grande per essere compensata dal ruolo di uno stato nazionale troppo piccolo, ha tempestivamente colto l'opportunità, con l'affare Chrysler, di proporre al governo Usa un azzardato scambio istituzionale, offrendo sinergie tecnologiche e continuità occupazionale in cambio di una quota azionaria con un'opzione di controllo. E nelle scorse settimane, con l'iniziativa "Fabbrica Italia" del nuovo piano industriale, Sergio Marchionne ha messo sul piatto negoziale il raddoppio della produzione automobilistica in Italia - che peraltro costituisce il ripristino dei livelli di output precedenti alla crisi a parità di perimetro di stabilimenti produttivi - in cambio di un patto sindacale sulla flessibilità produttiva. Questa intelligente mossa di relazioni industriali si accompagna a scelte che proseguono senza ripensamenti verso la sempre maggiore standardizzazione della componentistica, la condivisione di piattaforme e di moduli tecnologici e il perseguimento di economie di scala con collaborazioni industriali su scala globale. Per un processo produttivo come quello automobilistico, tuttavia, la quota di valore aggiunto che afferisce all'assemblaggio finale della vettura - ovvero ciò che convenzionalmente conferisce l'attributo di Made in al prodotto - si è sempre più ridotta negli anni, a beneficio sia delle fasi manifatturiere a monte, quelle relative alla componentistica e alle piattaforme, sia di quelle a valle, con le formule di vendita basate su schemi di finanziamento. Il Made in Italy nell'auto, quindi, ha dovuto reinventarsi: sarà sempre più costituito dal perimetro di processi ottimo minimo per assicurare il giusto compromesso tra il necessario livello di relazioni industriali e istituzionali, nonché di connotazione identitaria del prodotto, da una parte e le esigenze di razionalizzazione di una filiera produttiva irreversibilmente globale, dall'altra. Peccato per il romanticismo, meglio così per la competitività.