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Res publica: la lezione dell'Iri

, di Andrea Colli - ordinario presso il Dipartimento di scienze sociali e politiche
Il caso dell'Istituto per la ricostruzione industriale dimostra che il matrimonio pubblico-privato, oggi tornato di moda, funziona solo se il legame si basa sulla fiducia reciproca

Raccontare che c'è stato un periodo in cui lo "Stato era bello" non è facile, ma è affascinante perché attuale. La proprietà pubblica delle imprese è oggi tutt'altro che scomparsa: nonostante una fase di intense privatizzazioni, Stati e governi restano proprietari di percentuali significative di imprese leader in settori strategici come energia e difesa. A seguito delle emergenze degli anni appena trascorsi, persino il governo federale statunitense si è ritrovato a essere azionista di controllo di imprese e banche. Per non parlare della Cina, dove giganti a prevalente controllo pubblico dominano larghi settori dell'economia. Esperienze profondamente diverse, ma con un elemento in comune. Ai capitali in mano pubblica si affiancano, in misura significativa, quelli forniti da azionisti privati, individui o investitori istituzionali.

Una coabitazione che suscita notevole interesse, ma anche non poche preoccupazioni, relative alla tutela delle (necessarie) minoranze nei confronti di un azionista di maggioranza spesso incline a perseguire obiettivi non del tutto orientati alla massimizzazione dello shareholder value. L'Italia, caratterizzata da un intervento statale nell'economia precoce e poliforme, può raccontare al proposito una storia istruttiva. Nel 1933, proprio a seguito di una crisi economica senza precedenti, il gigantesco bail-out (iniezione di liquidità) delle principali banche (che erano anche azioniste delle imprese) poneva nelle mani dell'Ente creato all'uopo, l'Iri, un quinto del totale del capitale azionario delle imprese italiane. Una percentuale in alcuni settori (telefonia, cantieristica, siderurgia) prossima alla totalità. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta gli azionisti privati che mettevano denari nelle imprese sotto il controllo dell'Iri oltrepassarono il mezzo milione. Una convivenza possibile, nota come formula Iri. Ai tecnocrati che avevano progettato l'Iri era però chiaro che il capitale privato si attraeva solo dietro precise condizioni: rendimenti competitivi, efficienza economica degli investimenti, nessuna indulgenza verso obbiettivi extraeconomici. Gli azionisti di minoranza non potevano non essere contenti. Le imprese a controllo misto erano oligopoliste (a volte monopoliste) in settori in costante espansione, come la telefonia e l'elettrico, oppure, guidate da manager di primordine, all'avanguardia tecnologica e praticamente senza sfidanti, come nella siderurgia. Un matrimonio apparentemente perfetto. Ma qualche screzio covava sotto la cenere. Il fatto era che l'Iri, data la sua rilevanza, non poteva rifuggire il ruolo di strumento di politica industriale. Ma lo fece nel modo peggiore, nel momento in cui le scelte strategiche abbandonarono i criteri di efficienza economica per abbracciarne altri, di natura politico-clientelare. Il tutto finanziato, per far più in fretta possibile, tramite debiti a breve e a medio-lungo termine. Affamato di "cash", l'Iri prese a espropriare sistematicamente gli azionisti di minoranza, indirizzando sempre maggiori risorse a investimenti di dubbia redditività. A metà anni Settanta il loro numero complessivo si era dimezzato, mentre le sottoscrizioni azionarie crollavano, costringendo l'Ente a indebitarsi in una spirale senza fine. È una storia densa di interessanti insegnamenti per quanti, oggi, percorrono strade analoghe; una storia che dimostra che il matrimonio pubblico-privato può funzionare, ma che, come tutti i legami, è basato sull'equilibrio della fiducia reciproca, nella buona e nella cattiva sorte.