Regolari e consapevoli: ritratto dei lavoratori stranieri in cerca di identità
I dati non sono sempre chiarissimi e univoci, ma possiamo affermare che al 2006 gli iscritti stranieri alle tre maggiori confederazioni sindacali superavano abbondantemente i 300 mila e forse arrivavano a 400 mila. Quel che è certo è che negli ultimi anni l'incremento ha assunto ritmi e intensità notevoli, con un aumento di oltre il 49% (circa 110 mila unità) fra il 2001 e il 2004. Di conseguenza, oggi potremmo avere circa mezzo milione d'iscritti stranieri alle sole Cgil, Cisl e Uil, senza contare altri sindacati.
Inoltre, la gran parte degli iscritti stranieri appartengono ai settori edile e meccanico, cioè a quelli ad alta intensità di mano d'opera, e provengono dagli strati sociali più bassi. Dunque, i ruoli inferiori ovvero meno specializzati del lavoro, quelli più pesanti, sono ormai in buona parte occupati da stranieri e lo saranno sempre di più in futuro.
Chiedersi quali conseguenze questo possa avere, è quanto meno utile e sensato.
Per esempio, è probabile che l'immigrato interpreti la sua sindacalizzazione non solo come la garanzia di condizioni basilari, che egli raggiunge spesso per la prima volta: molti provengono da paesi nei quali il sindacato non esiste, o è pura finzione, e così è per i diritti normativi e salariali; la sindacalizzazione riveste, qui, anche forte potenzialità simbolica e cioè crea senso di appartenenza e identità, in quanto il sindacalizzato appartiene a un gruppo preciso: quello dei lavoratori regolari, professionali e consapevoli. È portatore insomma di identità collettiva e individuale. La tessera sindacale può così supplire alla mancata cittadinanza, all'inferiorità che all'immigrato è attribuita per il suo essere tale, senza contare i fattori etnici, linguistici, religiosi e culturali.
Così, si profila un sindacato la cui base di attivi tende a essere più straniera che italiana, mentre ancora per molti anni possiamo immaginare che i ruoli direttivi e i lavoratori più qualificati apparterranno al gruppo di quelli che, per parafrasare un termine statunitense, potremmo definire Wic, White, italian, catholic.
Il problema non è solo di tipo etnico e di carattere gerarchico-lavorativo. Per esempio, è credibile che il lavoratore immigrato, ferme restando queste caratteristiche, tenda ad affermare un sistema di garanzie basato su un contratto unico, nazionale, egualitario, che lo difenda in ogni circostanza, che gli garantisca un salario sicuro e norme di protezione e che, al contempo, lo equipari quanto possibile al collega italiano, ovvero lo aiuti a salire la scala sociale, che non è fatta solo di fattori monetari ma anche di pesanti e rilevanti simboli esteriori. Il tutto avviene nel momento in cui, viceversa, la contrattazione collettiva perde peso a vantaggio di quella individuale, che però viene proprio a esaltare capacità, competenze, istruzione, e cioè doti che chi deve partire dai gradini inferiori della struttura collettiva possiede o può far valere in misura minore, non foss'altro perché è pressato dalla concorrenza di migliaia di altri che, partendo dalle sue stesse, difficili condizioni, sono disposti a prestare il loro lavoro a condizioni inferiori, anche nell'illegalità.
E qui torna uno dei problemi che più pesano in questi anni d'immigrazione non governata e forse ingovernabile: la presenza di un numero inconoscibile di persone che a tutti gli effetti non esistono, sono sconosciuti al meccanismo legale e formale del nostro paese (e dell'intera Eu). Costoro sono disponibili ad alimentare un mercato parallelo a costi inferiori e sono impossibili da sindacalizzare (salvo precise condizioni) e quindi rendere visibili e difendibili. Paradossalmente, prima di procedere a espulsioni e carcerazioni di migliaia di persone, a volte pur inevitabili, sarebbe davvero utile fornire loro un'identità che almeno permetta di riconoscerli dal punto di vista anagrafico. Seguendoli, identificandoli, comprendendone spostamenti e storie collettive e individuali. Viceversa, sarà sempre come rincorrere fantasmi.