Quando scoppia una crisi cambiano le logiche
Ogni situazione di crisi consegna al mondo un numero di migranti tendenzialmente proporzionale alla gravità della causa che lo origina. L'Europa lo sa bene, almeno dalla fine del secondo conflitto mondiale, quando le 'displaced person' si presentarono come una delle più difficili e drammatiche eredità della guerra.
Il controllo delle frontiere, la decisione sovrana su chi è "amico" e chi è "nemico", rientrano tra quegli ambiti in cui gli stati appaiono tradizionalmente più restii a cedere porzioni di sovranità. D'altra parte, nessuna conquista del diritto internazionale umanitario si è mai sostanziata nel riconoscimento di un diritto soggettivo del migrante a entrare e soggiornare in uno stato diverso da quello di cui è cittadino. In altre parole, gli stati sono tendenzialmente liberi di regolare l'ingresso e il soggiorno sul proprio territorio, ricorrendo al sistema delle quote di ingresso, al rilascio di permessi di soggiorno condizionati all'esistenza di requisiti anche reddituali, ai provvedimenti di espulsione. Le situazioni di crisi si sottraggono però a questa logica. In presenza di flussi di migranti che sfuggono da conflitti o persecuzioni, gli stati hanno un dovere di accoglienza che si sostanzia nel divieto di respingimento e di espulsioni di massa. Di fronte ai migranti che cercano rifugio poiché temono persecuzioni, gli stati hanno l'obbligo di accoglierli e permettere loro la presentazione della richiesta di riconoscimento dello status di asilante. Non si tratta però dell'applicazione di una sorta di diritto emergenziale delle migrazioni: è infatti la singola situazione di rischio del migrante ad essere valutata dallo stato di accoglienza ai fini del riconoscimento della protezione. Quali sono le fonti dell'obbligo di non respingimento? Innanzitutto e a livello internazionale, la disciplina dello status di rifugiato (cioè la Convenzione di Ginevra del '51, ma anche la Convenzione europea dei diritti dell'uomo, art. 5) e, poi, almeno la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, il Patto internazionale sui diritti civili e politici e, a livello europeo, le direttive dell'Unione europea, che addirittura ampliano la sfera di protezione tradizionalmente riconosciuta al rifugiato dal diritto internazionale pattizio. Ma non ci si deve fermare qui. Le Costituzioni riconoscono il diritto all'asilo del migrante perseguitato, talvolta ampliando le situazioni potenzialmente oggetto di tutela, come fa per esempio la Costituzione italiana (articolo 10, c. 3 e 4).Dunque, nelle ipotesi citate, il margine di discrezionalità degli stati si assottiglia, non soltanto perché esistono i citati trattati internazionali, ma ancor prima perché il principio generale di non refoulement (non rimpatrio) rientra nel cosiddetto diritto consuetudinario, vincolante per tutti i membri della comunità internazionale, a prescindere dall'adesione a un trattato. Certo, sul piano dell'effettività gli strumenti internazionali citati scontano qualche volta meccanismi di protezione non propriamente efficaci. Costituiscono sicuramente un'eccezione le norme contenute nella Convenzione europea dei diritti dell'uomo, alla cui corretta interpretazione presiede la Corte di Strasburgo. Essa ha più volte ribadito i contenuti del principio di non refoulement. Uno stato non può respingere i rifugiati: a) verso paesi in cui possono subire torture o trattamenti disumani (come prevede espressamente l'art 3 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo); b) senza considerare le specifiche situazioni di rischio del migrante; c) senza apprestare idonee garanzie durante le procedure di espulsione. Esistono insomma obblighi cogenti. Lo ha ricordato di recente la Corte di Strasburgo, condannando lo stato italiano per il rimpatrio di un cittadino marocchino, sottoposto a tortura una volta giunto nel paese di origine. L'auspicio è che il decisore politico non dimentichi la lezione. Sembra, infatti, che in certi frangenti l'invocazione dei diritti umani da parte degli stati europei sia direttamente proporzionale all'intenzione di prescinderne.