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Primavera araba: vediamo l'estate

, di Francesco Passarelli - Dipartimento di Scienze sociali e politiche
Politica. Risulta prematura ogni previsione di svolta irreversibile verso sistemi di tipo democratico

Ha già un nome, primavera araba, l'enorme ondata di proteste che sta attraversando i paesi arabi del medio oriente e della sponda sud del Mediterraneo. A partire dallo scorso dicembre le proteste hanno già provocato vere e proprie rivoluzioni, come nel caso di Tunisia ed Egitto, rivolte, in Yemen, Siria e Barhain e guerre civili, come in Libia. Quello che ha accomunato queste proteste in un evento senza precedenti è l'impressionante effetto-contagio che è stato generato e il ruolo determinante dei social network come fattore di coordinamento. Nonostante la violenta risposta delle autorità, le proteste hanno portato in alcuni casi al rapido rovesciamento dei governi, e negli altri casi a una forte pressione nei confronti dei leader in carica. Quello che stanno segnando queste rivolte è un momento storico di rottura strutturale con il passato.

Le ragioni sono da ricercare nel crescente grado di insoddisfazione delle popolazioni di fronte al declino economico, alla povertà diffusa, alla disuguaglianza distributiva e alla sistematica negazione delle libertà fondamentali. L'insoddisfazione non è tuttavia un dato assoluto, ma dipende dalla capacità di immaginare un mondo alternativo; una sorta di punto di riferimento rispetto al quale valutare la situazione corrente. Probabilmente internet ha offerto a giovani con elevati livelli di istruzione una finestra aperta sul mondo che ha mostrato quanto misera fosse la loro condizione. La protesta ha componenti psicologiche molto importanti. Il distacco dal passato è probabilmente più facile per i giovani e l'indignazione e il risentimento si rafforzano all'interno di un processo collettivo. I paesi occidentali hanno salutato con favore le proteste, offrendo appoggio politico, finanziario e in alcuni casi anche militare alla popolazione civile e ai ribelli. L'obiettivo è giungere il prima possibile a una stabilizzazione politica, garantendosi fin da subito il dialogo con i nuovi governi. I singoli paesi europei hanno forti interessi economici e sono interessati alla stabilità delle relazioni commerciali. La politica estera dell'Unione è stata tuttavia timida rispetto alle azioni intraprese singolarmente dai partner europei. Le prospettive economiche sono sicuramente positive. Si tratta di un'area fortemente integrata al suo interno. I fondamentali dei paesi in molti casi sono buoni e in crescita. C'è da augurarsi tuttavia che il loro grado di integrazione nella comunità economica internazionale aumenti progressivamente per il futuro. Molti hanno parlato di processo di democratizzazione, facendo riferimento al fatto che in tutti i casi l'obiettivo delle rivolte sono stati governi autoritari, caratterizzati da livelli di corruzione interna molto alti e dalla negazione di diritti e libertà fondamentali. Forse è prematuro prevedere per questi paesi una svolta irreversibile verso sistemi politici e sociali di tipo democratico. Quello di cui invece si può già parlare è l'emergere di una dinamica sociale fra interessi contrapposti di tipo culturale, politico e religioso. Il futuro di questi paesi non somiglierà mai più al loro passato. L'intera società sarà interessata da un profondo processo di rinnovamento. I nuovi governi dovranno tenere conto degli interessi delle minoranze, dovranno procedere a una redistribuzione più equa delle risorse, dovranno confrontarsi con una nuova classe sociale intermedia dotata di capacità di critica ed in grado di esercitare una forte pressione politica.