Pmi. Nel loro piccolo lavorano sulle esperienze comuni
II tema lavoro ha mille sfaccettature. Tornato alla ribalta l'aspetto giuridico-contrattuale con la 'vertenza' Fiat e il referendum dello scorso gennaio, ci siamo ritrovati a parlare di regole, di confronto e politica sindacale, di produttività e mobilità, di investimenti in cambio di maggior impegno e più rigidi vincoli organizzativi. Aspetti dalla grandissima valenza simbolica, in grado di imprimere una svolta al consolidato e conservatore mondo del lavoro sindacalizzato, ma che interessano solo la grande impresa manifatturiera e i suoi collaboratori, di fatto in Italia una minoranza, per quanto qualificata. Occorre prestare molta attenzione a quanto avverrà in fase attuativa dell'accordo ormai approvato a Mirafiori perché sicuramente ciò produrrà importanti conseguenze in altre grandi imprese confindustriali, ma senza dimenticare che la realtà del lavoro nel nostro paese scorre in mille rivoli diversi dal grande fiume.
Ciò riguarda soprattutto il conflitto capitale-lavoro. In prossimità del referendum si è assistito a scene cui non eravamo più abituati: violente contrapposizioni sindacali e politiche, con il riemergere di simboli ormai quasi dimenticati. Per la grande maggioranza dei piccoli e medi imprenditori il proprio destino e quello dei collaboratori è, al contrario, strettamente intrecciato. Stringere i denti, anche ricapitalizzando l'azienda, è opzione naturale per queste persone anche per salvaguardare l'occupazione. Conoscendoli e ascoltandoli, non può non risultare vecchia la distinzione tra padroni e operai: nella maggioranza di queste imprese si è insieme, nella distinzione di responsabilità e carismi, per il bene comune. E l'etica c'entra molto poco. Nella realtà delle pmi la fiducia è merce sufficientemente diffusa, che mantiene un suo mercato e il cui valore tende a salire proprio in periodi di crisi. Per queste imprese perdere un collaboratore significa spesso privarsi delle competenze maturate in anni di relazione: è a rischio non solo il saper fare, pur importantissimo, ma anche il vissuto di battaglie affrontate e vinte, di problemi risolti e di sconfitte aziendali elaborate insieme. Questa esperienza comune è un cemento il cui potere antisismico è più forte di un rapporto mercantile o di regole burocratiche. Dietro l'impegno di molti imprenditori a non ricorrere alla cassa integrazione, a mantenere lo stipendio invariato a fronte di minori ore lavorate oggi per recuperarle domani, a ricapitalizzare le imprese con risorse fresche e provenienti dalle proprie tasche non c'è etica, c'è interesse. Essi riconoscono che dietro i successi del passato ci sono le loro intuizioni strategiche, la loro voglia di rischiare, ma anche la dedizione e l'impegno di tanti collaboratori che oggi, in un momento di generale fatica, vanno tutelati anche a costo di salvaguardare, nel mucchio, i furbetti. La vicinanza dell'imprenditore/datore di lavoro, la chiarezza e concretezza di un obiettivo comune continuamente riproposto, un lavoro di cui è facile percepire il risultato finale a cui si sta contribuendo riducono la possibilità di vivere l'impresa come un ambito di conflitto tra opposti interessi e rilanciano l'opportunità di interpretarlo come luogo in cui imparare o trasmettere un mestiere, esercitare una responsabilità di indirizzo o rischiare tempo, energie e soldi per un'idea. Allora il lavoro non è alienante, ma suscita almeno un minimo di passione, l'integrazione tra storie anche molto diverse, è più facile, si risolvono i problemi senza necessariamente ricorrere al sindacato, si è disposti a farsi carico, senza esagerare ovviamente, dei problemi dell'azienda, si matura in accordo con l'imprenditore una creatività a servizio anche del territorio. Insomma, l'azienda diventa un luogo di vita.
Hirschman individuava nell'abbandono, nella rivendicazione o nella fiducia i modi con cui governare una relazione: le nostre pmi hanno intrapreso da anni quest'ultima strada.