Piccolo e' bello, ma l'importante non e' quello
Molte sono le prospettive con cui si può leggere il ruolo delle piccole imprese nel processo di industrializzazione dell'Italia. Una prima prospettiva è quella di matrice ottimistica, che vede la piccola impresa come elemento in grado di garantire all'Italia sin dal principio il raggiungimento di una serie di obiettivi: reddito integrativo per una forza lavoro per la maggior parte agricola sino agli anni successivi al secondo conflitto mondiale; capacità di export, necessaria a sostenere l'importazione di quanto, in termini tecnologici ed energetici, non disponibile nel paese; attenuazione degli impatti più violenti dell'industrializzazione di massa e dei problemi di sottoccupazione, ad esempio nelle due fasi postbelliche.
Nella sua forma più "virtuosa", il distretto industriale, la piccola impresa raggiungerebbe livelli di flessibilità ed efficienza paragonabili, se non superiori, soprattutto in termini "sociali", a quelli della grande impresa, sebbene in settori differenti. Corollario di tale interpretazione è una rilettura polemica del processo di industrializzazione nazionale, e delle scelte di politica industriale, ritenute eccessivamente di supporto alle grandi imprese e alle industrie definite "innaturali", ossia quelle che la dotazione di fattori del paese (in termini di risorse, capitale e lavoro) avrebbe dovuto sconsigliare di sostenere e incentivare. Si tratta di spunti polemici di cui si è tornato ad avere qualche assaggio, in particolare nella fase più acuta della crisi in corso, ma che non sono nuovi. Se ne trova traccia negli scritti degli economisti industriali che dagli anni Ottanta si sono occupati di distretti, che hanno riletto l'industrializzazione del Sud attraverso l'apporto dell'impresa pubblica alla stregua di un processo di depauperamento di competenze artigianali e "desertificazione" da cui scaturirebbe l'attuale arretratezza del Mezzogiorno. A differenza dei danni prodotti dalla grande impresa, l'apporto della piccola impresa avrebbe, pertanto, un bilancio più che positivo e un'azione "salvifica". A questa visione ottimistica se ne oppongono altre, che tendono invece a rintracciare proprio nella presenza di troppa piccola impresa, di localismo spinto, di scarsa propensione alla crescita, di settori labour intensive e a scarsa intensità tecnologica le origini vere delle difficoltà del paese, compreso un passivo di bilancia commerciale che in certi comparti (la chimica di base e l'elettronica di consumo), raggiunge livelli preoccupanti. Il declino delle (poche) grandi imprese italiane, drammatico sul finire del millennio, sarebbe il segnale evidente di una progressiva marginalizzazione dell'economia italiana e soprattutto di un declino inarrestabile di quella che fu "l'Italia industriale", destinata a tornare confinata a periferia sottosviluppata d'Europa come nei secoli bui precedenti il suo decollo industriale. L'Italia delle piccole imprese sarebbe, in questa prospettiva, l'esito sub ottimale di un processo di deindustrializzazione, da fronteggiare tramite appropriate politiche industriali.Uno sguardo più equilibrato alla storia industriale del paese, tuttavia, non può non evidenziare alcuni elementi. I "grandi tornanti" della crescita nazionale (l'età giolittiana, gli anni della belle epoque, il miracolo economico, persino gli anni Ottanta) non sono merito della piccola o della grande impresa. L'intensità dello sviluppo è spiegabile, piuttosto, grazie alla presenza di una vera e propria "community of companies", ovvero di una popolazione equilibrata di imprese piccole, medie e grandi, in grado di occupare efficientemente i rispettivi comparti, ma anche di sviluppare positive interazioni sia attraverso meccanismi di subfornitura che di generazione, circolazione e sviluppo di capitale umano. L'equilibrio di un sistema industriale, completato da un "sistema nazionale d'innovazione" imperniato sull'interazione del mondo scientifico e accademico con quello imprenditoriale: ecco la vera "assenza storica" in grado di pregiudicare la solidità dello sviluppo del paese.