Pa: perche' i conti non tornano
Da quando nel 1995 sono stato chiamato in Bocconi a occuparmi di contabilità e controllo nelle pubbliche amministrazioni con un approccio economico-aziendale, ho visto susseguirsi la serie infinita di riforme contabili degli enti locali che hanno caratterizzato questo periodo storico, fino all'ultima recente.
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Fabrizio Pezzani |
Ne emerge una continua asimmetria tra l'inarrestabile prolificità normativa e la progressiva inefficacia e inefficienza dei sistemi di controllo, fino ad arrivare al disastro del sistema attuale: più si facevano e si fanno norme, più il sistema di controllo peggiora sia nella incapacità di rilevare per tempo le criticità e le distorsioni nei meccanismi di spesa, sia nell'incapacità di indirizzare l'attività delle pubbliche amministrazioni verso un impiego efficiente e responsabile della spesa. Ma perché in tema di riforme contabili continuiamo a finire in un cul de sac?Per una serie di motivi. Il primo è che l'approccio al controllo è di tipo giuridico, per cui di fronte a un problema si fa costantemente ricorso alla formulazione di una nuova norma, all'inasprimento di quelle esistenti e all'introduzione di un nuovo organo di controllo (spending review docet), ma mai che una volta ci si domandi perché quelle regole in essere non hanno funzionato; con quest'approccio culturale siamo sempre al palo. Secondo: la distanza tra amministrazioni centrali e periferiche si è ingigantita. Le prime vedono la realtà dal desktop del pc, le seconde vivono i problemi reali sul campo e la visione che ne consegue è completamente diversa. Mentre le prime formulano i dettati normativi in un contesto di astrattezza giuridica, le seconde devono sforzarsi di applicarli ossessionate dal problema del rispetto delle normative e perdono di vista l'unitarietà della gestione. Si sviluppano due culture che non si capiscono più. Forse chi fa le norme dovrebbe provare a scendere da Marte e farsi un periodo di sabbatico negli enti locali. Terzo, l'assetto istituzionale del paese è perennemente in mezzo a un guado, tra modello centrale e federale (nel 2009, il 56% dei dipendenti pubblici afferiva alle amministrazioni centrali) e i controlli sono pensati con una logica di uniformità in un paese profondamente diverso nei territori. Il modello di controllo non è coerente con il paese reale, quindi non funziona. Quarto: il patto di stabilità come è pensato oggi è un insulto alla ragioneria. Ragiona sui tetti di spesa, gli input, e non si correla ai risultati, gli output. I tetti sono pensati su singole voci a canne d'organo e impediscono la ricerca dell'ottimizzazione delle combinazioni produttive. Aumenta la rigidità quando bisogna cercare l'elasticità, mentre il controllo deve andare su aree di risultato. Quinto: bisogna ridurre la spesa corrente, che è il vero problema. Per farlo servono un orizzonte a medio-lungo termine per una programmazione efficace e delle regole stabili per il patto di stabilità per il quale, oggi, l'approvazione del preventivo per l'anno in corso può essere portata al mese di luglio. Quindi un programma per 4 mesi (escludendo agosto), con la certezza di ulteriori cambiamenti. Tutto il contrario di quello che serve. Infine, tutta l'attenzione dei controlli è sul controllo preventivo di legittimità, mentre il consuntivo non interessa a nessuno. Viene così a mancare la correlazione tra le seguenti fasi del controllo: preventivo –concomitante e consuntivo – analisi delle variazioni – azioni correttive e delle responsabilità. Ora in un quadro così confuso l'incertezza e la scarsità di competenze specifiche regnano sovrane: invece di discutere sui numeri e sulle nuove regole alimentando i conflitti e la confusione è ormai indispensabile ragionare sui principi e sulla loro reale applicabilità.E così anche noi smetteremo di scrivere sempre le stesse cose.