Non lasciamoci abbagliare dal solo segmento residenziale
Il mercato immobiliare italiano è realmente in crisi? Per verificarlo giova fare qualche riflessione sul peso di ciascun comparto rispetto al totale, in termini di controvalori transatti ogni anno.
Se confrontiamo Spagna, Francia, Germania e Inghilterra con il nostro mercato di riferimento scopriamo che in termini dimensionali assoluti i cinque sono assolutamente comparabili, ma se analizziamo il mix tra i diversi comparti, scopriamo come l'Italia abbia una peculiarità: il comparto residenziale occupa oltre l'80% per cento del totale a fronte di una media Ue del 50% (con un picco della Germania verso il basso).
Questo significa che il mercato italiano dovrebbe essere residential driven, ovvero fortemente influenzato nella sua interezza dall'andamento del comparto percentualmente più grande.
In realtà, se analizziamo più in dettaglio i diversi comparti scopriamo che questi ultimi si sono mossi in modo decisamente diverso negli ultimi anni.
Il comparto residenziale è sicuramente cresciuto molto (troppo?) a fronte di un comparto industriale che sta attraversando un periodio di crisi e di comparti commerciali e alberghieri che sembrano invece attrarre ancora molto gli investitori.
Questa banale lettura del mercato (peso specifico dei comparti e possibilità che abbiano andamenti non correlati) è ben nota agli operatori professionali, che tendono infatti a investire ora nel residenziale, ora nel commerciale, con un approccio opportunistico che li porta a sovrappesare o sottopesare i propri portafogli per cercare di catturare gli upside che si andranno a realizzare negli anni successivi.
Ma come pensano di trarre profitto gli investitori? Essenzialmente da due diverse componenti di reddito: dall'upside tra prezzo di acquisto e prezzo di vendita, come già detto, ma anche e sempre più dalla capacità del bene di produrre reddito una volta locato su un orizzonte temporale il più possibile lungo e stabile.
Ed ecco che la classificazione fatta in apertura tra i comparti trova un'ulteriore chiave di lettura nel momento in cui si analizza l'asset allocation degli investitori e si scopre che, come in Italia, chi investe nel residenziale mediamente si deve accontentare di un 3% lordo a fronte di chi investe in un multisala che sa di poter contare su circa 8% (e nel mezzo tutti gli altri).
La ragione di questa differenza di ritorno è essenzialmente dovuta al fatto che i due investimenti hanno un profilo di rischio diverso. Per due motivi: quando l'investimento è fatto per ritrarre un reddito, il rischio maggiore è quello di non ottenerlo perché il conduttore se ne è andato. Poiché il numero dei potenziali conduttori alternativi per un multisala è molto piccolo (3-4 possibilità rispetto a un mercato, per i beni residenziali, di 20 milioni di famiglie), trovarne un altro è più difficile. In secondo luogo, nell'ipotesi che sia impossibile affittare l'immobile (per mutate condizioni del mercato o dei gusti dei consumatori) e si debba quindi procedere alla vendita, sarà ovviamente meno rischioso aver investito in un palazzo ad uso ufficio, che potrà essere facilmente frazionato, rispetto a un multisala, che non potrà mai avere una destinazione diversa né mai potrà essere venduto a pezzi.
Se si condividono queste considerazioni si capisce per quale motivo un Fondo immobiliare oggi, o una Siiq domani, non investirà mai spontaneamente nel settore residenziale per trarne un reddito da distribuire ai suoi sottoscrittori.
Nel 1992 il mercato italiano stava attraversando una fase molto simile a quella che stiamo vivendo: prezzi in rallentamento, transazioni in discesa, tempi medi di vendita in espansione che portarono nel 1995 a un crollo di circa il 40% dei valori medi degli immobili (crollo manifestatosi in modo diverso comparto per comparto).
Cosa sarà dunque del mercato nel 2011? Credo che fra tre anni saremo di fronte a un mercato più selettivo sulla qualità dei metri quadri, più professionale e più "verde". Ma non radicalmente più basso.