Migrazione, strategia del pieno impiego
Per i paesi del sud del Mediterraneo la migrazione è una necessità e si può considerare come parte della strategia per il pieno impiego dopo il fallimento delle politiche d'industrializzazione degli anni '70. Tra i fattori strutturali troviamo la rigidità dell'occupazione presente nel settore pubblico e la modesta domanda del settore privato, ancora limitata al di fuori del settore agricolo o di quello informale. Non ha poi giocato a favore il ciclo economico negativo tra gli anni '80 e '90, mutato solo con l'impennata del prezzo del petrolio nell'ultimo triennio.
Le politiche strutturali hanno esasperato il problema e il fenomeno migratorio si è così trasformato in una leva attiva per garantire l'efficacia delle politiche stesse, al punto di inserirlo negli impegni con gli organismi internazionali. La coincidenza è visibile nella dinamica delle voci della bilancia dei pagamenti e della crescita delle rimesse degli emigrati, che oggi costituisce la maggiore industria in molti paesi. Per quelli qui in esame l'afflusso annuale è più che raddoppiato in un decennio, dagli 8,2 miliardi di dollari nel 1995 ai 20 miliardi del 2006. Il contributo al pil è passato dall'11,3% al 23% per il Libano, il paese che ha la più grande diaspora, dal 5 all'8% in Marocco e dal 4 al 5% in Tunisia. In nessun paese dell'area Med, esclusa l'Algeria, l'incidenza è diminuita. Anche in Egitto, che può contare sulla rendita del Canale di Suez e del petrolio, le rimesse degli emigranti sono ritornate a contribuire per un 5% del pil.
In confronto con le esportazioni di merci, il cui valore è per altro inflazionato dall'aumento dei prezzi delle materie prime e dell'energia, si vede come l'esportazione di braccia e di cervelli sia molto più efficace. Per Marocco ed Egitto le rimesse degli emigranti sono pari al 40% dell'export, una quota ben maggiore della componente materie prime e prodotti energetici, settori leader per i rispettivi paesi. Nel caso del Libano le rimesse sono tre volte superiori al valore annuale dell'export. Più equilibrata è invece la situazione in Tunisia con una quota che non supera il 13%, mentre in diminuzione è la situazione in Algeria, paese che beneficia della rendita dei prodotti energetici.
Per la riva sud del Mediterraneo l'idea della migrazione per motivi politici fa forse più parte della storia che della realtà attuale. Le condizioni economiche e politiche hanno trasformato il modello dell'emigrazione, oggi ben più complesso, ma anche più strutturato e assistito da reti formali e informali nei paesi di destinazione.
Le forme legittime e regolamentate di migrazione (ricongiungimento famigliare, permesso di lavoro) volte a limitare gli accessi, sono state superate dal flusso di clandestini in transito dalla Libia, un flusso che non è regolabile con gli strumenti della cooperazione euro mediterranea, in quanto la Libia ne era stata esclusa e ammessa con lo status di osservatore solo dopo il 1999. Status non comunque adeguato per il pieno utilizzo degli strumenti del partenariato e di quelli della politica di vicinato: si può procedere solo con un dialogo bilaterale, caso per caso. Un vuoto che rimane aperto, come si è visto nel corso della conferenza ministeriale sull'emigrazione e lo sviluppo che si è tenuta a Tripoli nel novembre 2006 e che fatica a prendere corpo in iniziative comuni. A fronte della convergenza sull'opportunità di favorire la corretta gestione delle migrazioni nell'interesse reciproco dei paesi di partenza e di destinazione, Gheddafi continua a giustificare l'emigrazione come un diritto dei popoli a spostarsi, lasciando intendere che il fenomeno non va fermato.
D'altra parte, se l'emigrazione è un pilastro nelle politiche dell'impiego nei paesi d'origine, al pari del dichiarato impegno all'aggiustamento macroeconomico, gli emigranti contribuiscono a ridurre la pressione sul mercato del lavoro interno e a compensare con le loro rimesse il disavanzo commerciale, che è all'origine dello squilibrio macroeconomico. L'attenzione è quindi rivolta alle rimesse valutarie, che però nascondono un aspetto negativo quando vengono destinate al consumo e non agli investimenti. La cooperazione internazionale, oltre a bilanciare le esigenze della domanda con le capacità dell'offerta per contrastare l'emigrazione illegale, dovrebbe anche considerare precisi impegni per indirizzare gli emigranti di ritorno verso il nascente settore privato. L'azione più convincente per i paesi d'origine è quella di affrontare alla radice le cause dell'emigrazione illegale, non limitarsi a controllare il fenomeno già in atto. Le cause sono attribuibili al divario dei redditi, alla mancata crescita del benessere e dell'occupazione interna. Non servono misure di breve termine o tampone, ma occorre una visione nazionale, inserita nel futuro del Mediterraneo: riduzione dei divari, buone politiche, rafforzamento degli investimenti e sostegno dell'iniziativa privata.
Quella dimensione adeguata che permette di usufruire di una finanza evoluta e di una squadra di manager di alto livello. Più d'una di queste medie aziende si sta incamminando lungo questa via.