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Le emozioni che possono far risparmiare 300 miliardi

, di Isabella Soscia - assistant professor del Dipartimento di marketing della Bocconi
A tanto ammontano negli ultimi 12 anni, nel solo Giappone, i costi della depressione. Che viene contrastata con il marketing

Un curioso e macabro articolo del Sole24Ore, alcune settimane fa, riportava i costi economici delle forme patologiche della tristezza in Giappone: suicidi e perdite di lavoro legate alla malattia varrebbero quanto una manovra di stimolo fiscale. Aziendalisti ed economisti che si interrogano, perplessi, sulla rilevanza delle variabili emotive in ambito economico, dovrebbero superare le prime diffidenze di fronte alla perdita di 300 miliardi di euro sostenuta dall'economia giapponese negli ultimi 12 anni causata proprio dalla malattia della depressione. Il governo giapponese è corso ai ripari varando una task force di prevenzione della malattia, misure preventive che coinvolgono anche ... leve di marketing! È stata pianificata, infatti, una campagna di comunicazione interpretata da un testimonial celebre: Kengo Nakamura, amato centrocampista del Kawasaki Frontale.

La ricerca della gioia è, in generale, la chimera della nostra società, addirittura un diritto, almeno secondo la Dichiarazione di indipendenza americana. E se ci può far sorridere lo spazio dedicato nelle librerie ai manuali che ci istruiscono sul raggiungimento della felicità, dall'altro, quantomeno come studiosi di marketing, non possiamo non interrogarci seriamente su questi clamorosi successi editoriali e su che cosa ci renda felici o tristi. Se è vero (e la ricerca scientifica lo dimostra) che i soldi e il materialismo non comprano la felicità, è anche vero che ciò che ci rende felici, tipicamente le attività creative individuali e le relazioni con gli altri, sono pervase dalla dimensione del consumo. Con riferimento alle seconde, un recente studio condotto negli Usa sostiene che fra i momenti più gioiosi della giornata, rientrino le occasioni di socializzazione extralavorative, come può essere proprio la visione collettiva di una partita di calcio.La felicità può poi risiedere nell'attività in sé, piuttosto che nel raggiungimento di un obiettivo e, in particolare, nell'attività individuale di immersione in un processo creativo. Ci sentiamo felici quando riusciamo a realizzare noi stessi in un'attività che ci esprime appieno. L'esecuzione di una coreografia per un'appassionata di danza, la preparazione di un piatto prelibato per un gourmet, la stesura di un libro o l'interpretazione di un brano musicale possono rappresentare momenti felici per chi si cimenta in queste attività. Lo psicologo ungherese Mihaly Csikszentmihalyi ha definito 'flow' questo stato di totale immersione che accompagna l'attività creativa, l'espressione di un talento piuttosto che l'esecuzione di un compito sfidante: in questo senso la felicità può essere considerata come la prima conseguenza di questo stato di immersione. Tali occasioni di condivisione e di realizzazione personale non prescindono, quindi, da una dimensione di consumo.Un'esperienza di acquisto connotata da forti emozioni positive non fa solo la felicità del cliente, ma anche quella delle imprese che la promuovono. Una recente ricerca intersettoriale realizzata dal Cermes (Valdani, Soscia, Zarantonello, ExTra: Experience and Trust), che ha previsto il coinvolgimento di 32 realtà aziendali e più di 2.000 consumatori, ha verificato come la realizzazione di una dimensione esperienziale generi una relazione di fiducia fra i clienti e le imprese che l'hanno sostenuta.Dunque, un management accorto ma cauto nel ricorso persuasorio delle leve di marketing ed un cliente consapevole possono divenire felicemente complici di un'esperienza di consumo memorabile.