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Le donne tengono alta la pressione sui diritti

, di Paola Profeta - ordinaria presso il Dipartimento di scienze sociali e politiche
Da oltre un secolo le lobby femminili portano avanti con successo le loro battaglie. Nel bene del Paese

Il secolo passato ha visto trasformazioni profonde del ruolo della donna nella sfera dei rapporti economici, sociali e culturali. Le donne hanno conquistato il diritto di voto, si sono appropriate della formazione della propria identità a partire dall'istruzione e sono entrate nel mercato del lavoro. La storia ci insegna che la lobby delle donne, alimentata da associazioni e movimenti femminili, è stata determinante nelle diverse fasi di questo lungo processo di emancipazione femminile del Novecento.

Paola Profeta

La lobby femminile è sempre attiva. Emblematico è stato il movimento a supporto dell'adozione della legge 120 del 2011, che impone alle società quotate una percentuale minima del genere meno rappresentato nei cda e nei collegi sindacali. Le quote rosa hanno aggregato associazioni femminili preesistenti, nuove associazioni, media, studiose, rappresentanti delle istituzioni e della politica, anche di orientamenti distanti tra di loro. Grazie all'azione congiunta e intensa non solo la legge è stata approvata, ma ha cominciato a mostrare i suoi effetti ancora prima della sua operatività (agosto 2012): a metà luglio 2012 la percentuale di donne che siede in un cda di società quotate è arrivata al 9,75% (rielaborazioni di Piera Bello e Paola Profeta su dati Consob). Fino al 2006 eravamo sotto al 5%. Sono numeri ancora lontani dalle soglie imposte per legge (1/5 inizialmente e 1/3 poi), ma è già un successo in un paese come l'Italia, tipicamente fanalino di coda nelle statistiche di genere. Perché le donne fanno lobby? E perché le lobby femminili possono risultare così efficaci? Sono domande affascinanti anche per l'economia. Sicuramente il fatto che le donne rappresentino la metà della popolazione aiuta: non possiamo certo parlare di successo di una minoranza, come in molti casi di lobbismo. Ma non solo. Riprendendo la letteratura di lobbying sviluppata nella political economy recente, potremmo ipotizzare che la pressione esercitata dalla lobby femminile non sia tanto basata sul denaro speso nell'attività di lobbying (good-intensive) ma piuttosto sul tempo investito (time-intensive). Questo può limitare i tipici fenomeni di free-riding, ossia legati a comportamenti opportunistici, che emergono in contesti di azione collettiva e rendere più efficace il risultato, soprattutto se le donne sono molto focalizzate e unite sull'obiettivo da raggiungere, la parità. Un altro suggerimento interessante viene dagli studi tradizionali di psicologia evolutiva e di sociologia, che hanno mostrato come le donne tendano a essere più cooperative e meno competitive degli uomini. In un contesto di gruppo, per gli uomini è importante mostrare il primato individuale, mentre le donne tendono a fare squadra. Questo risultato è stato confermato da alcuni studi di economia sperimentale (si veda la review di Croson e Gneezy, Gender differences in preferences, Journal of Economic Literature 2009). Le capacità femminili di creare network, fare squadra ed essere compatte sull'obiettivo della parità sono sicuramente carte vincenti per il successo della lobby delle donne. Ma c'è ancora molto da fare: in paesi come l'Italia le donne sono ormai istruite quanto gli uomini, eppure le differenze di genere nei tassi di occupazione, nelle retribuzioni e nelle posizioni di potere rimangono molto accentuate. La lobby delle donne ha dunque una forza limitata? Forse. Ma, come spesso ribadito negli ultimi anni, l'uguaglianza di genere nel lavoro non è una questione di uguali diritti o di concedere benefici alle donne, è un'opportunità di sviluppo per tutto il paese. È questa ora la sfida più importante da portare avanti.