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La storia infinita della riforma dei servizi idrici

, di Antonio Massarutto e Alessandro De Carli - research fellows dello Iefe Bocconi
I due quesiti tutt'altro che decisivi del 12 e 13 giugno non porranno fine alla contesa. Servono altri interventi

La riforma dei servizi idrici è una storia degna delle telenovelas sudamericane, che dura da quasi 20 anni. Gli ultimi episodi trasmessi sono stati il decreto Ronchi e il decreto Calderoli. E la prossima (attesissima) puntata è quella dei referendum. Che succederà? È utile distinguere il significato tecnico dei quesiti referendari da quello politico. Sotto il profilo strettamente tecnico, la portata del referendum va senz'altro ridimensionata.

È significativo che la Corte Costituzionale abbia accolto solo due quesiti su quattro: da un lato ribadendo l'appartenenza del servizio idrico ai servizi di interesse generale di rilevanza economica, mantenendo viva la possibilità di affidarlo in concessione a terzi o a società miste partecipate dal privato; dall'altro abbia ritenuto ammissibile un quesito che toglie sì "l'adeguatezza della remunerazione del capitale investito" dai criteri per la fissazione delle tariffe, ma continuando a ribadire il principio della copertura dei costi, compresi quelli di investimento, principio solennemente affermato anche dalle norme europee come la Direttiva Quadro Acque (2000/60/CE). Un'abrogazione dell'art. 23 bis (primo quesito) ripristinerebbe la situazione preesistente alla "riforma": il servizio idrico, in quanto servizio industriale, rimane gestibile nelle varie forme già ammesse dalla legge, e che spaziavano dalla concessione alla società pubblica, passando per le società miste. In ciò rispettando pienamente il diritto europeo ed evitando la strana assurdità di una gara cui avrebbero partecipato sia le aziende pubbliche che le private, con l'ente proprietario dell'azienda partecipante a fissare le regole del bando e a decidere l'assegnazione; ma anche senza cedere alla richiesta di derubricare l'acqua a "servizio privo di rilevanza economica", gestibile da enti di diritto pubblico. Se rimaniamo alla forma del testo di legge, prima e dopo il referendum, poche modificazioni avrebbe indotto nella sostanza la riforma, e altrettanto poche ne verranno indotte dalla sua eventuale abolizione. Quello che la legge rendeva obbligatorio (la gara) resta in ogni caso un percorso possibile tutte le volte in cui la gestione pubblica non è nelle condizioni di farcela da sola. La legge non avrebbe decretato alcuna "privatizzazione coatta dell'acqua", e la sua abrogazione non impedirà a chi lo desideri di coinvolgere il privato nella gestione.Anche il secondo quesito, in realtà, potrebbe cambiare poco: vietare il profitto ma obbligare alla copertura dei costi d'investimento, è una specie di ossimoro, visto che nel costo del capitale è compreso l'interesse e il premio per il rischio. La vittoria referendaria finirebbe allora solo per ribadire una cosa già ovvia anche per l'ordinamento vigente, ossia che la remunerazione del capitale investito non deve eccedere quella "normale" che si avrebbe in condizioni di concorrenza, evitando di riconoscere "extraprofitti" di monopolio. Con o senza referendum, l'acqua è e rimane un servizio pubblico essenziale, va erogato con criteri di universalità di accesso, organizzato secondo modalità decise da un soggetto pubblico; il gestore va scelto sotto la responsabilità dell'ente pubblico, e svolgerà la sua azione nel quadro di un rapporto regolato dal soggetto pubblico; i costi vanno coperti senza consentire a nessuno di approfittarne. Con o senza referendum, l'affidamento a privati non è obbligatorio, né vi sono obblighi di cedere al mercato quote delle aziende pubbliche; il referendum abolirebbe l'obbligo di andare in gara, ma non l'ammissibilità dell'affidamento a privati (nel qual caso una gara comunque è necessaria). Il legislatore dovrà mettere mano (vedi Massarutto, Privati dell'acqua?, Il Mulino, 2011), almeno in tre ambiti: una riforma della regolazione, tale da rafforzare i poteri pubblici, a fronte di una gestione necessariamente sempre più industriale; una riforma dei meccanismi tariffari, tale da costruire nello stesso tempo una tariffa che garantisca chi investe e stimoli l'efficienza, superando le molte falle del metodo esistente; infine, una riforma finanziaria, per evitare che il colossale investimento necessario poggi tutto e solo sulla tariffa.