La moda vuole essere mobile. Ma non sfonda
La moda le ha tentate tutte anche quest'anno per emergere durante il Salone del Mobile e guadagnarsi i suoi spazi a suon di cocktail e comunicati stampa: Hermès lancia il progetto casa, Armani dalle cucine passa agli armadi, Moroso e Foscarini lavorano con Renzo Rosso (Diesel) per una collezione di mobili. Forse per compensare l'alea di mistero e l'esclusività delle sfilate, le varie maison hanno partecipato sfavillanti a questa importante kermesse. Nella lista degli opening cocktail troviamo Ferragamo, Trussardi, Versace e molti altri. Tutti hanno sperimentato l'ingresso nel settore arredo anche solo con una collezione tessile o mettendo a disposizione lo showroom per la presentazione di prodotti.
Da un punto di vista manageriale questa è l'occasione per riflettere sul connubio, più volte proclamato, tra moda e arredamento. Purtroppo, non abbiamo dati puntuali per valutare il successo economico e competitivo di queste iniziative, ma si può esprimere qualche commento qualitativo. Come mai l'arredo fa così gola? E come mai non è avvenuto il contrario, ossia che il sistema arredo abbia deciso di occuparsi anche di moda? Nonostante il successo mediatico delle numerose iniziative di collaborazione, restano perplessità sull'effettiva consistenza di questi progetti. Eccellenti operazioni di comunicazione, ma non sappiamo fino a che punto brillanti idee di business.Una prima considerazione attiene all'oggetto di questa sperimentazione che può essere connotato da diversi gradi di complessità. Un conto è creare qualche particolare tessuto, proporre qualche linea di biancheria, firmare casalinghi o oggetti per la casa, altra cosa è proporre elementi di arredo come armadi e cucine. Per non parlare poi di chi lancia il "total look", che il consumatore già respinge nel vestirsi. Il tema in discussione è fino a che punto il consumatore, sempre più refrattario a proposte totalizzanti e preconfezionate, desideri legarsi per tempi lunghi (dettati dalla durabilità del prodotto) a salotti e camere con un total look fortemente identificato, rinunciando a mescolare e personalizzare l'arredo con pezzi di varia provenienza. Se è vero che la complessità produttiva può essere esternalizzata, la gestione della distribuzione è forse l'elemento più problematico. Dove vendere questi prodotti che necessitano spesso di competenze distintive forti? Come avere spazio in una distribuzione matura e satura? E ha una ratio economica ovviare al problema investendo in negozi monomarca? Pensiamo di no, anche perché dobbiamo ricordarci che rotazioni e prezzi unitari sono notevolmente diversi.Il mondo dell'arredo in generale ha sempre lavorato con designer "industriali", seguendo modalità operative piuttosto diverse dalla moda. Quest'ultima si caratterizza per l'unicità del riferimento creativo; nell'arredo invece la relazione con i designer è spesso multipla e non necessariamente continuativa. E proprio questo arricchisce il valore dell'azienda e della sua produzione. Le difficoltà legate allo sviluppo sono quindi molteplici, legate agli spazi di mercato comunque ristretti, in comparti già affollati da produttori e marche specializzate. Ovviamente gli ostacoli legati alle specificità dei singoli business possono essere superati con l'individuazione di un partner industriale ad hoc, ne è un esempio la collaborazione tra Armani e Dada per le cucine.Una particolare opportunità si individua inoltre in quelle esperienze dove la collaborazione o l'unione tra i due mondi sfrutta le competenze di base dell'azienda. E qui un insegnamento è rintracciabile più nell'arredo che nella moda. Kartell ha lanciato le sue Glue Cinderella (ballerine), Lady (calzature con la zeppa) e Sofia (stivali da pioggia), non tanto per diventare una fashion house, ma per sfruttare ulteriormente, in questo caso guadagnando, le sue consolidate competenze tecnologiche nella lavorazione delle materie plastiche. Un prodotto che ha avuto riscontro positivo anche nei tradizionali negozi di calzature e di abbigliamento.