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La generazione tranquilla

, di Vincenzo Galasso - professore di economia, direttore del Dipartimento di Scienze sociali e politiche, Universita' Bocconi
Giovani: un contratto unico, che elimini quello a tempo senza perdere flessibilità, risolverebbe il trauma del precariato di lungo periodo

Il futuro non si prospetta semplice per i giovani, per quella che Thomas Friedman sul New York Times ha definito Generation Q, la generazione tranquilla. Così tranquilla che i politici finiscono per disinteressarsene a favore di altri tipi di elettori: anziani, donne, borghesia urbana, religiosi o laici. Quali potrebbero essere i punti cruciali del programma di un "partito dei giovani"?

Partiamo dal mercato del lavoro. La disoccupazione giovanile è diminuita dal 35% degli anni '80 a poco più del 20%, eppure i giovani continuano a incontrare difficoltà. Solo un under 40 su 3 accede al mercato del lavoro con un contratto a tempo indeterminato. Per gli altri l'occupazione ha una data di scadenza e il passaggio al tempo indeterminato è spesso lento e incerto, soprattutto al sud, per le donne, e per i non laureati. Per aiutare i giovani bisogna ridurre il dualismo del mercato del lavoro, che tende a proteggere i lavoratori senior e a precarizzare i giovani, ma preservando la flessibilità in ingresso. Ciò è possibile con l'adozione di un contratto unico a tempo indeterminato che preveda tre fasi: prova, inserimento, durante il quale i lavoratori sono coperti da un'indennità in caso di licenziamento, e stabilità.

Ma il disagio giovanile nasce ben prima dell'entrata nel mondo del lavoro. I test Ocse sulla conoscenza della matematica, delle scienze e di comprensione di un testo mostrano le carenze del nostro sistema scolastico. In matematica, i 15enni italiani raggiungono un punteggio medio di 462, inferiore a quello di tutti i loro coetanei dei paesi Ocse, tranne Grecia (459), Turchia (424) e Messico (406). Ancora più preoccupante è il dato del sud: il 49% degli studenti siciliani registra un punteggio inferiore a 420! Intanto in Finlandia la media è 548, in Spagna 480. Per migliorare la scuola sono necessari meccanismi di valutazione del sistema scolastico nazionale. Si può partire dai test Pisa o dalla prova dell'Invalsi. Queste valutazioni danno una misura dei risultati didattici delle scuole e della qualità del lavoro degli insegnanti. Il salario e la carriera del dirigente scolastico e dei docenti dovrebbero essere legati alla performance della scuola. Inoltre, poiché il comportamento dei docenti dipende dagli incentivi economici, ma soprattutto dall'approvazione sociale del loro operato, i dati sui risultati ai test Pisa e Invalsi delle singole scuole e gli sbocchi occupazionali o universitari dei diplomati devono essere resi pubblici.

Infine, l'università. Malgrado i risultati dei test Pisa, l'80% dei 19enni italiani raggiunge la maturità, il doppio rispetto al 1980. Il 60% si iscrive all'università, dove ovviamente non predilige le materie scientifiche. Nel 2005-06, 44mila studenti si sono iscritti a lettere e filosofia, 47mila a economia, ma meno di 30mila alle facoltà scientifiche. Scelte favorite dalle scarse informazioni di cui gli studenti dispongono sulle facoltà prima di iscriversi. Quante sono le facoltà che pubblicano informazioni sugli sbocchi occupazionali dei propri laureati, il loro primo salario, il tempo intercorso per il primo impiego? Pochissime. Manca l'incentivo a farlo, perché non c'è concorrenza. Anzi, il proliferare di sedi universitarie riduce il peso che le famiglie danno a questo investimento in capitale umano. Il risultato è che 7 laureati italiani su 10 reputano che l'università non li ha formati per svolgere il loro lavoro. Nel Regno Unito, i laureati scettici sono il 40%. Per aumentare il valore di mercato della laurea è necessario smettere di finanziare le università a pioggia e premiare le sedi migliori, in base ai criteri (internazionali) della ricerca. E, per aumentare la concorrenza tra atenei, consentire loro di finanziarsi con tasse di iscrizione più alte, accompagnate da borse di studio per i meritevoli. La concorrenza porterebbe alla riduzione delle sedi meno produttive. Maggior selezione e più incentivi, o disincentivi, anche per i docenti: strutture retributive meno restrittive per consentire agli atenei di competere con le università estere nell'acquistare i docenti più produttivi e nell'attrarre i migliori stranieri. Ma anche la possibilità di licenziare i docenti per scarsa produttività.