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Information Techology. Bella, ma maneggiamola con cautela

, di Stefano Basaglia - docente di sistemi informativi aziendali alla Bocconi
L'Ict rappresenta un vantaggio competitivo, ma nutre il rischio di un controllo panoptico sui lavoratori

Il discorso pubblico dominante di matrice manageriale e organizzativa tende a privilegiare una visione positiva delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione (Ict) o, quand'anche assuma una visione critica, questa è sempre rivolta ad analizzare la diffusione e l'adozione delle Ict considerando il punto di vista delle imprese che le adottano e di chi, al loro interno, ha il potere di deciderne l'adozione.

In particolare, in una prima fase, il discorso pubblico ha cercato di evidenziare il legame tra adozione delle Ict e conseguimento di un vantaggio competitivo sui concorrenti e, quindi, prestazioni economiche superiori alle medie di settore. Stante la difficoltà di misurare tale legame, il discorso pubblico ha preso due vie diverse.

Da un lato, si è messo in evidenza il valore simbolico, feticistico e legittimante dell'adozione: secondo tale prospettiva, nel sistema economico si è diffuso il mantra in base al quale "solo le imprese dotate di una determinata infrastruttura tecnologica e di un definito portafoglio applicativo sono in grado di competere all'interno del capitalismo informazionale". Il discorso pubblico si sarebbe dunque avvitato su una visione ideologica delle Ict, inseguendo quello che Wallestein chiama il mito dell'innovazione in sé e per sé.

Dall'altro, invece, si è postulato il decadimento delle Ict da risorsa strategica a commodity: esse rappresentano una risorsa essenziale per le imprese, ma non permettono di conseguire un vantaggio competitivo, che deve essere cercato altrove.

Tutte e tre le prospettive, ossia quella banalmente positiva, quella critica basata sulla legittimazione e quella critica basata sulla perdita di strategicità, perdono di vista le conseguenze delle Ict sul lavoro e sui lavoratori.

In particolare, trascurano il fatto che le Ict trasformano la qualità del lavoro. Come evidenzia la letteratura marxista e neo-marxista, le Ict distanziano il lavoratore dall'oggetto del proprio lavoro, quindi tendono ad aumentare il livello di astrazione del lavoro e a diminuirne il grado di eterogeneità. Questi aspetti tendono ad allontanare sempre più le attività decisionali da quelle esecutive. Lo spettro del lavoratore qualificato che deve svolgere mansioni dequalificate si aggira, quindi, più vivo che mai nascosto dietro label accattivanti ma spesso privi di sostanza come empowerment o proattività.

Altro aspetto critico delle Ict è l'aumento delle possibilità di controllo dell'impresa sul lavoratore. Le tecnologie informatiche, infatti, rendono maggiormente possibile ed economico il controllo panoptico, un controllo in cui si incrementa la visibilità dell'impresa sui tempi e sui modi di esecuzione del lavoro e in cui, usando le parole di Foucault, il lavoratore è osservato, ma non può osservare, è oggetto dell'informazione, ma non della comunicazione. In questo modo, le Ict minano l'equilibrio tra l'esigenza di controllo dell'impresa e la libertà del singolo lavoratore.

Questo discorso è valido anche per l'individuo nella sua veste di consumatore: quando acquistiamo libri o dvd su Amazon, la società non sta semplicemente registrando dei dati neutri di tipo quantitativo, ma sta rilevando delle informazioni qualitativamente sensibili sulle nostre preferenze politiche, il nostro orientamento sessuale o il nostro rapporto con la religione. In cambio Amazon ci offre un servizio di consulenza sugli acquisti futuri, ma in questo caso siamo di fronte ad un trade-off. In una società realmente libera la diffusione di queste informazioni non desterebbe preoccupazione, in una società solo formalmente libera come la nostra il discorso cambia. Le Ict dovrebbero essere maneggiate con cautela individuando sempre i benefici e gli aspetti negativi relativi a tutti i soggetti in gioco.