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Imprese nelle mani di pochi. Però non fa male

, di Francesco Perrini e Barbara Rovetta - rispettivamente ordinario del Dipartimento di management della Bocconi e docente di finanza aziendale alla Sda Bocconi
Il primo azionista detiene in media il 46% delle quote, il secondo l'8% sia prima che dopo il codice Preda

Che il sistema economico italiano sia caratterizzato da forti azionisti di maggioranza, azionisti di minoranza scarsamente tutelati e larga diffusione della proprietà di tipo familiare è un fenomeno da tempo confermato dalla letteratura finanziaria. Benché il quadro istituzionale sia andato incontro nell'ultimo decennio a numerosi mutamenti, tra cui la legge Draghi e il codice Preda, l'attuale panorama di riferimento non sembra tuttavia radicalmente cambiato.

Un recente studio condotto sulle imprese italiane quotate nel periodo 1996-2003 ha evidenziato il permanere, ad oggi, di tutte queste caratteristiche. Emerge infatti che, nel Belpaese, la concentrazione proprietaria del primo azionista è superiore al 46%, a fronte di una quota media detenuta dal secondo azionista pari a solo l'8% e di una quota azionaria del management di poco inferiore al 15% delle azioni.

Osservando l'evoluzione temporale delle quote di partecipazione degli azionisti rilevanti si osserva inoltre che le recenti modifiche regolamentari non si sono tradotte in una riduzione delle quote azionarie mediamente detenute: la concentrazione proprietaria del primo azionista nel periodo dal 1996 al 1999, ante introduzione del codice Preda, è sostanzialmente identica alla concentrazione attuale, così come immutate sono rimaste le quote azionarie nelle mani del management.

Il management possiede mediamente una quota azionaria del 13% nelle imprese non concentrate, ma la sua quota di partecipazione sale a quasi il 17% nelle imprese in cui il primo azionista possiede una quota superiore al 50% del capitale. Come prevedibile però questo dato, letto da solo, può risultare fuorviante. Infatti, ripartendo le aziende in base alla tipologia di azionista di riferimento si può verificare che, nelle imprese familiari, il management possiede in media il 28,5% del capitale, a fronte di un solo 1% nelle imprese non familiari. È dunque evidente che, ove il controllo sia esercitato da una famiglia, l'azionista tende a essere coinvolto nell'attività manageriale.

Il coinvolgimento attivo nella gestione da parte della famiglia proprietaria rappresenta prassi comune nelle imprese italiane. Ciò implica che, nel contesto nazionale, la partecipazione azionaria del management non può essere interpretata come un meccanismo per ridurre i conflitti di interesse, essendo gli stessi manager membri della famiglia e dunque espressione dell'azionista di maggioranza. Si osserva tuttavia che la concentrazione proprietaria non è esclusiva delle imprese familiari: la quota azionaria detenuta dal primo azionista è mediamente pari al 47% nelle aziende familiari e al 45% nelle aziende non familiari.

In sintesi, nonostante i recenti cambiamenti intervenuti nel sistema regolamentare ed economico del nostro paese, il mercato italiano continua a caratterizzarsi per elevata concentrazione proprietaria e per ampia diffusione delle imprese familiari, che nel mercato italiano tendono ad essere similmente concentrate. In altre parole, la concentrazione è indipendente dalle caratteristiche dell'azionista di maggioranza. Diversamente da quanto evidenziato per i paesi anglosassoni, il management è raramente parte del gruppo di azionisti di controllo, a meno che non si tratti di società familiari.

Il mercato italiano continua dunque a caratterizzarsi per meccanismi di governance tipici delle imprese europee continentali, in cui il gruppo di comando domina il management o si identifica con esso. La nota positiva è che tuttavia, sorprendentemente, ciò non ha effetti negativi sulla performance finanziarie di impresa. Gli assetti proprietari concentrati non sembrano ostacolare un'efficace ed efficiente gestione aziendale.