Il voto da lontano
La partecipazione al voto degli italiani all’estero è da sempre molto più bassa di quella registrata in Italia: nelle elezioni del 2022 hanno votato il 26% degli italiani all’estero, contro il 64% dei residenti in Italia. Così, anche in occasione dei referendum su lavoro e cittadinanza dell’8 e 9 giugno 2025, è stato sollevato dai sostenitori dei referendum il dubbio che la scarsa partecipazione al voto degli italiani all’estero potesse determinare il mancato raggiungimento del quorum.
In teoria il problema è molto serio: nell’unica tornata referendaria in cui dal 1997 in poi è stato raggiunto il quorum – i referendum del 2011 su acqua pubblica e nucleare – la partecipazione al voto in Italia è stata del 57%, ma all’estero solo il 23% degli aventi diritto si è recato alle urne: l’affluenza complessiva è così scesa al 54,8%, pericolosamente vicina alla soglia del quorum. Pertanto, oltre a dover superare la sempre più elevata astensione fisiologica di chi non partecipa al voto per disinteresse e quella consapevole di chi rimane a casa per scelta, i promotori dei referendum devono fare i conti anche con l’ulteriore ostacolo della più elevata apatia politica degli elettori all’estero, che rende ancora più difficile il raggiungimento del quorum.
In pratica, però, nelle altre 5 tornate referendarie cui gli italiani all’estero hanno partecipato a partire dal 2003, il divario nella partecipazione è stato molto meno marcato: ai referendum del 2022, ad esempio, hanno partecipato il 16% degli italiani all’estero e il 21% circa dei residenti in Italia. Così è avvenuto anche per i referendum del 8 e 9 giugno 2025: la partecipazione in Italia è stata del 30,5%, all’estero del 23,5%, in entrambi i casi lontana dal 50% più uno richiesto per la validità del referendum.
Il punto semmai è un altro e va oltre la questione dei referendum. La scarsa partecipazione elettorale degli italiani all’estero dovrebbe far riflettere sull’opportunità stessa della inclusione di tutti gli italiani all’estero nel corpo elettorale. A giugno si è votato per l’abrogazione di leggi che si applicano a chi vive e lavora in Italia: è giusto che a queste votazioni partecipi, e possa essere decisivo, chi in Italia non vive ormai da anni o non ha mai vissuto?
In altri Paesi si è scelto di introdurre una distinzione fra i cittadini all’estero, riconoscendo il diritto di voto a chi si ritiene abbia ancora un legame solido con il Paese e negandolo a chi non lo abbia. In Italia si è percorsa una strada diversa. Da una parte, il diritto di voto è stato riconosciuto a tutti gli italiani all’estero, indipendentemente dall’aver mai vissuto in Italia o dal possedere un’altra cittadinanza. Dall’altra, però, per evitare l’impatto dirompente sulla politica italiana dell’enorme numero di residenti all’estero, è stato loro attribuito un numero di parlamentari nettamente inferiore a quello che spetterebbe loro se il voto all’estero valesse quanto quello di chi vive in Italia.
Nel caso dei referendum, però, questa soluzione del voto ponderato al ribasso, già di per sé assai discutibile, diventa impraticabile, perché non si tratta più di eleggere un numero più o meno ampio di parlamentari, ma di scegliere fra un Sì o un No, dove ogni voto ha lo stesso valore. Così, il voto “depotenziato” che gli italiani all’estero esprimono per l’elezione delle Camere diventa un voto pieno nei referendum abrogativi (e costituzionali). Lo stesso varrebbe nel caso di elezione diretta del Presidente del Consiglio dei Ministri, come previsto dalla riforma costituzionale del “premierato” sostenuta dalla maggioranza di governo. Se questa dovesse essere approvata, gli elettori all’estero, che rappresentano circa un decimo del corpo elettorale, passerebbero dall’eleggere uno sparuto numero di parlamentari attraverso la circoscrizione estero all’essere l’ago della bilancia dell’elezione centrale della politica italiana, quella del Presidente del Consiglio dei Ministri, che a sua volta determina la composizione delle Camere. Una questione seria, di cui è consapevole la stessa maggioranza che sostiene la riforma, ma che sinora non ha formulato una proposta credibile di soluzione.
In sintesi, il voto degli italiani all’estero nei referendum e il possibile mancato raggiungimento del quorum sono solo un aspetto minore di una questione molto più ampia. Riconoscere a tutti loro, senza distinzione, il diritto di voto nelle elezioni politiche e nei referendum è una scelta molto discutibile: se si comprende che continui a partecipare alla vita politica italiana il cittadino che si trova all’estero da poco tempo e con la prospettiva di rientrare in Italia, si fa invece molta più fatica a comprendere perché le scelte fondamentali della politica italiana debbano passare dal voto di un italo-discendente nato e cresciuto all’estero, pienamente integrato e cittadino del Paese in cui vive. Una distinzione all’interno del variegato insieme degli italiani all’estero appare necessaria: talvolta, per garantire un diritto, occorre porvi dei limiti.