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Il soft power di Hello Kitty

, di Elisa Bertolini
È la nuova diplomazia, quella che riesce a imporre modelli culturali, comportamenti e gusti e ad accrescere così la reputazione internazionale di un Paese. Una strategia in cui il Giappone è riuscito a imporsi sfruttando i successi dei manga. Complice anche il declino dell’industria culturale statunitense

Il 31 gennaio 2022 il presidente francese Emmanuel Macron pubblica sul proprio profilo Twitter una foto con cui annuncia il lancio di un pass culture dedicato ai giovani tra i 15 e i 17 anni. Nella foto si intravede una pila di libri, nella quale, tra un tomo delle Mémoires del generale de Gaulle e libro di Hélène Carrère d’Encausse, si intravede il volume 100 di One Piece, popolarissimo manga di Eichiro Oda. La domanda sorge spontanea: com’è arrivato il volume di un manga sulla scrivania di un capo di Stato europeo? Tralasciando la passione del presidente francese per i manga e One Piece in particolare, la risposta non può che essere una: soft power. 

Il concetto di soft power, elaborato all’inizio degli anni Novanta da Joseph Nye, fa riferimento a una nuova forma di diplomazia e a una nuova modalità attraverso cui un Paese può esprimere la propria volontà di potenza, senza però ricorrere alla coercizione. Il soft power indica la forza di attrazione, di fascinazione che uno Stato riesce a esercitare sugli altri, riuscendo a manipolarne i gusti, i comportamenti, gli interessi. In altre parole, il soft power di cui un Paese dispone dipende dall’immagine di sé che esso riesce a proiettare nella sfera internazionale, della reputazione, quindi, di cui esso gode. È la capacità di esportare, e diventare, un modello culturale. Il Giappone è uno dei Paesi globalmente più potenti in termini di soft power. 

Tramite prevalentemente i manga è comunque tutta la cultura nipponica che viene messa in valore, si parla infatti di cool Japan (espressione coniata nel 2002 da Douglas McCray nel suo articolo Gross National Cool in Foreign Policy). Il cool Japan svecchia l’immagine culturale del Giappone che era sino a qualche decennio fa limitata a samurai, geishe e ukiyoe, e la cultura manga e il kawaii (termine traducibile con carino, puccioso; ambasciatrice del kawaii è sicuramente Hello Kitty) ne sono i pilastri.

È interessante sottolineare come l’attuale potenza nipponica in termini di soft power non sia il risultato, almeno non inizialmente, di una politica specifica e organica di autopromozione culturale portata avanti dal governo. Solo nella seconda metà degli anni zero il governo nipponico ha deciso di servirsi della cultura manga per promuovere la propria immagine all’estero. È infatti a partire dal 2007, grazie specialmente all’interesse dell’allora ministro degli Esteri Taro Aso, che la promozione del soft power assurge al rango di chiave di volta della strategia internazionale del Paese. Così il Gaimu-shō (ministero degli Esteri) inizia a diventare il maggior sponsor del World Cosplay Summit, un incontro annuale di cosplayers (termine con cui si indicano coloro che si vestono con i costumi dei protagonisti di manga, film, videogiochi), che diventa così un’occasione di scambio e di incontro dedicato alla cultura nipponica.

Il manga entra così nella quotidianità occidentale e italiana; non stupisce più che i media tradizionali diano rilievo al Lucca Comics&Games o alle uscite degli anime e manga mainstream al cinema o in libreria. Così come non è più una novità vedere treni o tram “vestiti” con i personaggi di manga o emergere nelle grandi città o temporary store dedicati proprio al merchandise collegato ai manga più popolari. 

Il profilo che è forse maggiormente esemplificativo della forza di penetrazione del soft power è rappresentato dal fatto che la cultura anglosassone mainstream – fortemente in declino – stia tentando di rilanciarsi cavalcando proprio la popolarità dei manga. Basti vedere che uno dei più recenti successi di Netflix è la trasposizione live action del manga One Piece. L’industria del cinema americana ciclicamente guarda ai manga e al loro franchise per cercare di rivitalizzare, con esiti per il momento più negativi che positivi (basti citare le trasposizioni live action di Death Note, Cowboy Bebop o ancora Drangonball), una linfa creativa che tra spin-off, sequel, prequel e reboot sembra essersi seccata. 

Sicuramente, il declino relativo degli Stati Uniti nell’industria culturale ha contribuito al successo nipponico; al tempo stesso, però, l’industria nipponica è stata in grado di adattarsi alla massificazione della produzione culturale e alla sua diffusione istantanea su scala mondiale.

ELISA BERTOLINI

Bocconi University
Dipartimento di Studi Giuridici