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Il mercato che non vediamo

, di Stefania Borghini
Un potenziale da 15 trilioni di euro resta inespresso: le aziende ignorano i consumatori disabili, capaci di trasformare il trauma in creatività, impresa e condivisione sui social

Se si pensa che diverse fonti autorevoli stimano che circa il 20% della popolazione ha una qualche forma di disabilità, colpisce molto la sua sottorappresentazione – che spesso diventa invisibilità – sui media, nei contenuti televisivi e cinematografici, nella pubblicità e nell’offerta di prodotti e servizi. 

Negli ultimi anni sono state realizzate numerose campagne di sensibilizzazione per ridurre l’abilismo in ogni sua forma di discriminazione e stigmatizzazione delle persone con disabilità e associazioni e movimenti sociali si sono battuti per la rimozione di ogni forma di barriera culturale e fisica. Pubblicazioni accademiche hanno dimostrato empiricamente i diversi contributi della disabilità in termini di vantaggio competitivo suggerendo come questa non debba essere considerata semplicemente come una causa sociale ma come un vero e proprio asset aziendale. 

In UK, è stato stimato che il cosiddetto Purple Pound, ovvero la capacità di spesa annuale dei consumatori disabili a livello globale è superiore a 15 trilioni di euro. Tra i consumatori in generale molti accoglierebbero volentieri una maggiore inclusività da parte dei brand; se l’80% delle persone dichiara di apprezzare un immaginario più inclusivo nella comunicazione, più del 60% ha partecipato attivamente a scelte inclusive comprando i prodotti di aziende inclusive o modificando il proprio set di considerazione. 

Eppure… questo potenziale è ancora molto inesplorato perché molte aziende non riescono ad essere inclusive, e se lo sono, non sono sempre in grado di rivolgersi adeguatamente ai consumatori, a convincerli dell’autenticità e sincerità della propria strategia. Soprattutto, molte non conoscono i consumatori disabili e hanno una concezione limitata di cosa significhi “abilità”. Se da un lato, si dimostrano molto disponibili a coinvolgere atleti para-olimpici nelle loro campagne, dall’altro non considerano profittevole il target dei consumatori disabili comuni. 

Ma cosa scoprirebbero se iniziassero veramente ad avvicinarsi a loro?

Probabilmente avrebbero l’opportunità di comprendere l’intraprendenza di alcuni consumatori disabili, la forte attitudine al problem solving, la loro creatività e capacità di coinvolgimento di pubblici vasti, per citare gli aspetti più evidenti.

Una recente ricerca di natura etnografica  sulle persone che hanno acquisito una disabilità fisica a seguito di un trauma come incidenti o malattie ha fornito spunti interessanti per conoscere il percorso di ricostruzione della propria identità sostenuto dai consumi e dalla condivisione sui social media delle pratiche quotidiane.

Al di là della soggettività intrinseca di ogni percorso individuale, ricostruirsi una vita a seguito di un incidente o una malattia richiede l’attraversamento di almeno 4 fasi di coping durante le quali le pratiche di consumo giocano un ruolo importante. In questo viaggio, si alternano momenti fisicamente e psicologicamente difficili (fase 1 dell’immediatezza del trauma e fase 3 del ritorno a casa) e altri nei quali si sperimenta stabilità dovuta al raggiungimento di nuovi equilibri e all’acquisizione di consapevolezza delle proprie capacità e potenzialità (fase 2 della degenza e del recupero e fase 4 del raggiungimento della nuova identità). 

Se i primi momenti che seguono il trauma sono caratterizzati da forti difficoltà pratiche e psicologiche, successivamente le persone dimostrano forti capacità reattive che consentono una ripresa e nuove forme di quotidianità, un rapporto rinnovato con il proprio corpo e con il mondo fisico e sociale circostante. Non solo, alcuni individui si sostituiscono al mercato e diventano inventori, con poche risorse creano prodotti personalizzati, lanciano nuovi servizi, offrono opportunità per lo sport e le attività ricreative.

Ogni conquista e nuova consapevolezza possono essere condivise sui social media e diventare un diario di vita al quale possono attingere molte persone non necessariamente disabili. 

Osservando queste fasi che portano verso la ricostruzione di un sé nuovo, pieno ed appagante, è interessante notare come nel tempo gli individui siano in grado di affinare quella che in antropologia è stata definita disability expertise, ovvero quella capacità di riorganizzare attivamente norme culturali, relazioni tra il proprio sé, la corporalità, l’ambiente, le persone. Possedere questa abilità significa anche affinare competenze necessarie a interagire con un sistema di persone e istituzioni che spesso non hanno la capacità di comprendere e immedesimarsi.