I porti fanno acqua
La centralità del Mediterraneo nei traffici mondiali è evidente: la rotta fra il canale di Suez e lo stretto di Gibilterra è il passaggio obbligato per le direttrici fra il Far East e l'Europa del Nord e fra il Sud Est dell'Asia e la costa orientale del Nord America. Questo ruolo è amplificato dal fatto che queste rotte sono anche fra le più lunghe al mondo e pertanto le principali compagnie marittime mondiali nel settore container, di cui quattro delle prime cinque hanno l'headquarter in Europa, sperimentano tutte le scelte organizzative in grado di massimizzare le economie di scala e spingendo così verso il gigantismo navale e portuale. Dal canale di Suez passano navi in grado di trasportare anche 14.500 Teu, l'unità di misura dei container, che all'arrivo in porto richiedono un'organizzazione logistica estremamente efficiente in ogni singolo aspetto marittimo e portuale, dai servizi tecnico nautici come il pilotaggio e il rimorchio alle squadre di portuali in grado di lavorare in parallelo con sei o sette gru ad alta tecnologia, dati gli ingenti oneri finanziari per la gestione degli asset e il valore delle merci trasportate, che può superare abbondantemente le decine di milioni di euro.
In questo contesto, in cui fra il 1994 e il 2007 il tasso di crescita dei traffici container è stato superiore al 10% annuo e, dopo il biennio nero del 2008-09, i volumi sono tornati ai livelli precedenti e tutti i protagonisti sono ripartiti ad investire in modo consistente per uno sviluppo che pare inarrestabile, il ruolo della portualità nazionale è incerto e con elementi di minaccia molto concreti. Alcuni numeri possono esemplificare il problema. Mentre fra il 2005 e il 2010 il complesso dei porti di transhipment del Mediterraneo, cioè quelli dove viene valorizzata la logica di rete derivante dall'organizzazione basata sull'hub & spokes, sono cresciuti del 42%, i porti del Sud Italia con queste caratteristiche (Gioia Tauro, Cagliari e Taranto) hanno perso l'11% dei volumi. La cause: alti costi rispetto ai più moderni porti della sponda Sud del Mediterraneo (Tangeri e Port Said in primis), mancate connessioni terrestri e assenza di qualsiasi forma di attività logistiche retro-portuali. La centralità geografica non è più un elemento sufficiente per poter essere competitivi e le criticità sono esplose a partire dall'inizio dell'estate, quando la Maersk, la prima compagnia al mondo per numero di navi in questo settore, ha pianificato di non far più scalo a Gioia Tauro, costringendo la società terminalistica a ridurre del 40% la forza lavoro, proporzionale alla riduzione dei volumi attesi. Per gli undici porti di import-export italiani, di cui due (Genova e La Spezia) gestiscono il 55% dei volumi, la situazione è articolata, ma anche in questo caso la media della crescita dell'ultimo quinquennio è inferiore a quella dei principali porti europei (12% rispetto al 17%), rispecchiando gli andamenti dell'economia reale. Inoltre, l'efficiente e molto fitta rete di servizi intermodali ferroviari attivati dal Nord Italia verso i porti del Nord Europa di Anversa e Rotterdam sottrae traffici che troverebbero più conveniente dal punto di vista geografico, ma non economico, rivolgersi alla portualità del Nord Tirreno e del Nord Adriatico. Il settore del trasporto marittimo è il simbolo dell'evoluzione della globalizzazione in cui le economie di scala, le economie di rete e la capacità di gestire sistemi complessi, in un contesto in cui concorrenti inattesi possono affacciarsi a mercati ritenuti consolidati, sono elementi centrali per poter competere. Il Mediterraneo si è trasformato in un'arena fortemente concorrenziale, dove l'idea stessa di Mare Nostrum è tramontata rapidamente. Un rapido cambio di rotta della politica portuale nazionale è ormai urgente.