
I pericoli dell’iperconnessione
Il turnover dei dipendenti è costoso, destabilizzante e — nonostante la quantità di dati raccolti — molto difficile da prevedere. La maggior parte delle aziende attribuisce le dimissioni a cause esterne: un’offerta migliore, uno stipendio più alto, un trasferimento. Ma la mia ricerca suggerisce che i veri fattori scatenanti spesso si trovano all’interno dell’organizzazione stessa, nascosti nella struttura delle relazioni lavorative.
Negli ultimi anni ho studiato come la posizione dei dipendenti nella rete sociale interna di un’azienda — la trama informale di consigli, collaborazioni e supporto — possa influenzare la probabilità che restino o se ne vadano. I risultati sono stati piuttosto sorprendenti. Tendiamo a pensare che essere centrali in una rete lavorativa, cioè essere la persona di riferimento in azienda, sia sempre un vantaggio. Indica fiducia, competenza e influenza. Tuttavia, la mia ricerca rivela un quadro più complesso: i dipendenti altamente centrali sono anche quelli più esposti a interruzioni, sovraccarico e, alla lunga, burnout. In particolare, combinando dati sul campo, archivistici ed esperimenti, dimostro in modo consistente che l’associazione tra reti sociali e turnover non è lineare. Se chi si trova alla periferia della rete tende a lasciare perché si sente escluso o sottoutilizzato, anche chi è al centro corre un rischio maggiore di dimettersi. Il coinvolgimento costante, il flusso continuo di richieste e la pressione a essere sempre disponibili possono portare all’esaurimento. La posizione più sicura? Da qualche parte nel mezzo. Chi è ben connesso, ma non sovraccarico, ha la maggiore probabilità di restare.
Che la centralità possa ritorcersi contro non è sempre evidente in superficie. Questi dipendenti raramente si lamentano. Sono considerati top performer e spesso premiati per questo. Ma col tempo, proprio ciò che li rende indispensabili — richieste continue e connessione costante — può diventare fonte di affaticamento. Con poco tempo per riflettere o ricaricarsi, si trovano ad affrontare quello che la letteratura definisce information overload. Quando queste persone lasciano, non si perde solo un talento: si genera un effetto domino su tutta l’organizzazione.
Questo rappresenta un punto cieco in molte strategie di retention. Investiamo molto in programmi di benessere, sondaggi di coinvolgimento e benefit personalizzati — tutti sforzi importanti. Ma spesso trascuriamo la struttura relazionale che determina come il lavoro viene realmente svolto. I modelli tradizionali di people analytics si concentrano sugli attributi individuali. Un approccio basato sulla rete sociale, invece, può rivelare che il rischio è relazionale. Alcuni dei dipendenti più a rischio non sono isolati o disimpegnati: sono iperconnessi.
La soluzione non è scoraggiare collaborazione o disponibilità, ma essere più intenzionali nella progettazione del lavoro. Mappare le reti sociali all’interno di un’organizzazione può aiutare a identificare chi sostiene una quota insostenibile del carico relazionale. Questi dipendenti possono avere bisogno di maggiore supporto, tempo protetto o una redistribuzione delle responsabilità. Chiariamo: questo non significa trasformare ogni ufficio risorse umane in un team di analisti di reti sociali. Ma implica riconoscere che connessioni sociali e turnover sono intrecciati in modi che abbiamo appena iniziato a comprendere.
Con le aziende alle prese con modelli di lavoro post-pandemici, modalità ibride ed evoluzione delle aspettative, questa è un’opportunità per ripensare non solo a dove le persone lavorano, ma a come sono connesse tra loro. Talvolta, trattenere i migliori talenti non richiede più benefit, ma una migliore progettazione delle relazioni informali.