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Gosh! Il maggiordomo si è comprato il castello

, di Carlo Filippini - professore emerito
Gli inglesi non si sarebbero scandalizzati della perdita di Jaguar se avessero fatto più attenzione all'Oriente

Nei giorni scorsi ha suscitato sorpresa ed anche incredulità la notizia che una società indiana, la Tata Motors, aveva comprato due nomi storici dell'industria britannica, la Jaguar e la Land Rover (passati peraltro in mani americane, Ford Motors: come è noto tutti i marchi automobilistici britannici sono in mano straniera da molti anni). Nel mondo inglese questa vendita ha avuto una forte risonanza e non poche persone si sono rammaricate con parole fortemente critiche, quasi di condanna.

La sorpresa è forse dovuta ad una diffusa convinzione secondo la quale il mondo è diviso in due parti: da un lato i paesi ricchi, sviluppati e dall'altro i paesi poveri o in via di sviluppo. I primi creano nuove conoscenze, innovazioni, tecnologia e trasferiscono impianti, posti di lavoro e qualche aiuto ai secondi, mentre questi ultimi lavorano instancabili da mattina a sera (non proprio tutti, per la verità), producono vestiti molto cheap e oggetti in plastica, cercando di raggiungere il nostro livello di reddito, di imitare i nostri stili di vita, di copiare i nostri metodi di produzione (e magari le nostre merci).

Forse questa visione dell'economia mondiale era, in passato, sufficientemente corretta; ora certamente non lo è. Non vi sono più due gruppi, ma una lunga fila di corridori a volte solitari, a volte raccolti in piccoli gruppi. Alcuni paesi (Singapore, Corea del Sud, Taiwan, ad esempio) sono ormai diventati e considerati a pieno diritto membri del club dei ricchi. Altri lo stanno diventando: Brasile, Sud Africa, Cina, India, per ricordarne solo i maggiori.

Queste economie hanno ricevuto in passato molti investimenti esteri e sono state capaci di elevare il proprio livello tecnologico sia con riuscite politiche nei settori dell'istruzione e della ricerca sia assimilando le tecniche importate. Forti anche delle loro capacità di risparmio (fino al 40 % del reddito) ora possono, a loro volta, investire all'estero.

Naturalmente può sembrare meno sorprendente che una società egiziana ne compri una tunisina oppure che una tailandese investa in Laos (appena a destra, in alto): affari tra "poveri" dopotutto. Certamente questi flussi di investimenti Sud-Sud sono in rapida espansione e contribuiscono all'integrazione (non solo) economica tra paesi della stessa regione, ancor più del commercio internazionale.

Quello che maggiormente stupisce è l'acquisizione di imprese nei paesi ricchi: anni fa l'Ibm vendette alla cinese Lenovo la divisione dei personal computer. La più grande società siderurgica al mondo è indiana (con sede a Lussemburgo per addolcire la pillola), dopo la fusione dell'Arcelor nella Mittal. La Cina e l'India ci hanno abituato a sempre nuovi primati, ma la tendenza si estende a molti altri paesi emergenti.

Imprese sud-africane o egiziane nei settori minerari e delle telecomunicazioni ne hanno comprate altre non solo in paesi africani, ma anche in Australia o in Italia. Forse non molti sanno che la Birra Peroni fa ora parte di un gruppo sud-africano (sia pure quotato alla Borsa di Londra) o che una società del Kazakhstan ne ha comprata una canadese.

Questi investimenti sono un chiaro segno della crescente importanza di alcuni paesi in via di sviluppo, tendenza che sta spostando il baricentro mondiale verso l'Asia orientale. La loro cultura ha sempre tenuto in grande considerazione l'istruzione, principale strumento di mobilità sociale. Ancor più delle risorse naturali (spesso una maledizione, come scriveva Eliana La Ferrara un paio di numeri fa) o del capitale fisico, quello umano (persone istruite) si è rivelato il fattore chiave per lo sviluppo.