Gli immigrati, palestra per la personalizzazione dei servizi
Dalla seconda metà degli anni '90 le migrazioni verso l'Italia hanno raggiunto dimensioni comparabili a quelle di altri stati europei, rendendo prioritaria una strategia in grado di sostenere il processo d'integrazione dei cittadini stranieri.
Un possibile intervento delle amministrazioni è rappresentato dalla diversificazione dei servizi pubblici grazie a "discriminazioni positive" che tengano conto delle differenze esistenti tra utenti autoctoni e utenti stranieri in termini di cultura, lingua, conoscenza del sistema di welfare. Tali discriminazioni potranno concretizzarsi agendo sulle componenti del servizio: sul personale, con l'inserimento di mediatori culturali, sui processi d'erogazione, con la definizione di particolari orari e giorni di accesso ai servizi o sulle forme di comunicazione (traduzione del materiale informativo).
Ma fino a quale livello spingersi nell'introduzione di queste differenziazioni? Qual è la linea di confine tra discriminazioni positive opportune e non opportune?
L'adozione delle discriminazioni positive può rappresentare per gli immigrati un'occasione d'emancipazione, in un'ottica di empowerment. Infatti, attraverso queste azioni, l'utente straniero viene accompagnato a una maggiore consapevolezza dei propri diritti e a una migliore conoscenza delle regole di funzionamento dei servizi pubblici.
Al riguardo però si pone un'ulteriore questione: tutti i servizi pubblici devono occuparsi anche di stranieri (i vigili, la scuola, i servizi sociali, il public housing) o devono farlo solo alcuni servizi attivati ad hoc?
Il quesito non si pone: allo stato attuale la pubblica amministrazione italiana non ha i soldi per sviluppare un settore dedicato agli immigrati, rendendo superflua ogni riflessione sul rischio di ghettizzazione e sul mancato processo d'integrazione che inevitabilmente si ricollegherebbero all'attivazione di un settore ad hoc.
Due invece sono le scelte fattibili dal punto di vista organizzativo. Innanzitutto, se una specificità deve esserci per gli stranieri, questa è rappresentata dall'attivazione di un servizio di counseling che aiuti a muoversi nella rete dei servizi del welfare.
In secondo luogo, la differenziazione dei servizi dovrà essere realizzata con il coinvolgimento di tutti gli operatori chiamati a sviluppare competenze sul tema dell'immigrazione. Nella provincia di Mantova, ad esempio, dove l'11% circa degli alunni sono figli d'immigrati, tutti gli insegnanti dovrebbero fare un corso di formazione al fine di innovare i metodi didattici in un'ottica interculturale.
Ovviamente, questo processo di rinnovamento non può basarsi sulle buone intenzioni di singoli, ma deve dotarsi di un'appropriata struttura organizzativa. Ci dovrà quindi essere una posizione organizzativa specializzata sul tema dell'immigrazione, con funzione di supporto e coordinamento degli altri servizi aziendali e di interfaccia verso i policy maker.
In quest'ottica, l'immigrazione può rappresentare un'occasione per rinnovare le competenze del comparto pubblico, per rimotivare il personale, per migliorare i propri servizi: apprendere come differenziare le prestazioni agli immigrati è infatti una grande occasione per imparare a fare marketing dei servizi su tutti i cluster sociali prioritari per la pubblica amministrazione.
Infine, non meno importante è il metodo con cui affrontare il fenomeno dell'immigrazione. Considerando le complessità dello stesso, è necessario che la pubblica amministrazione faccia propria una visione sistemica del fenomeno migratorio italiano, in grado di oltrepassare i limiti che hanno caratterizzato le politiche degli ultimi anni. Ovvero, superare la visione dell'immigrato come semplice lavoratore, ma qualificarlo come portatore di un ampio spettro di bisogni e di diritti di cittadinanza e sostituire l'approccio top-down con quello bottom-up, in grado di riattivare il dialogo tra i differenti attori pubblici e privati e integrare i differenti livelli d'intervento.