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Le aule di tribunale entrano nella lotta al cambiamento climatico, estendendo la valutazione di impatto alle emissioni future e lontane. Ma mentre l’Europa spinge sul ruolo dei giudici, gli Stati Uniti riaffermano la centralità della politica nella governance ambientale

Prima di autorizzare un progetto che potrebbe avere un impatto significativo sull’ambiente, un’amministrazione deve seguire una serie di passaggi procedurali che permettono di analizzare e valutare gli effetti ambientali che ne derivano. È la valutazione di impatto ambientale (VIA), un processo che si svolge in modo trasparente e partecipato, coinvolge cittadini e soggetti interessati, considera possibili alternative e misure per ridurre o compensare gli impatti negativi. Introdotta per la prima volta nel 1969 negli Stati Uniti con il National Environmental Policy Act (NEPA), la VIA si è diffusa in molti Paesi, compresa l’Unione europea, dove la prima direttiva in materia risale al 1985.

Negli ultimi anni, la VIA ha assunto un ruolo sempre più strategico anche nella lotta contro il cambiamento climatico: da più parti si afferma oramai che essa non possa limitarsi a considerare solo gli effetti locali e, per così dire, “immediati” di un progetto, ma che debba valutare anche le conseguenze climatiche a lungo termine e “su scala globale”, generate lungo l’intero ciclo di vita dell’opera.
Nel contesto europeo, grande clamore hanno destato due decisioni recenti, rispettivamente, della Corte Suprema britannica (caso Finch c. Surrey, del 20 giugno 2024) e della Corte dell’EFTA (caso E-18/24, del 21 maggio 2025) le quali hanno statuito che, nei progetti di sfruttamento di giacimenti petroliferi, la VIA deve includere anche le emissioni “downstream”, cioè quelle derivanti dalla raffinazione del petrolio e dal suo utilizzo finale come combustibile in altri impianti. La tesi delle Corti è che il processo di raffinazione del petrolio non interrompa il nesso causale tra l’estrazione e la successiva produzione di emissioni perché, una volta estratto, è praticamente certo che il carbonio contenuto nel petrolio verrà rilasciato nell’atmosfera sotto forma di CO. Per questo motivo, la VIA deve considerare anche queste emissioni “a valle”, generate da soggetti terzi e potenzialmente lontane nel tempo e nello spazio rispetto all’impianto soggetto a valutazione di impatto.
 

Il caso del petrolio è molto diverso da quello, ad esempio, di una fabbrica che produca metalli destinati alla costruzione di automobili: in quest’ultimo caso, sarebbe più difficile sostenere, per es., che le emissioni generate dalle auto in circolazione siano direttamente collegate al processo produttivo dei metalli. Resta il fatto che le statuizioni della Corte suprema britannica e della Corte dell’EFTA sono dirompenti e comportano la soluzione di problematiche giuridiche e tecniche molto complesse.
L’orientamento giurisprudenziale che sta emergendo in Europa merita insomma attenzione per tre ragioni.
In primo luogo, perché il perimetro della VIA viene notevolmente ampliato partendo da un quadro normativo oggettivamente non univoco e passibile di diverse interpretazioni: il che conferma l’attitudine delle Corti europee a giocare un ruolo attivo nella transizione ecologica, interpretando in modo (anche molto) evolutivo strumenti giuridici esistenti.
In secondo luogo, perché l’applicazione al contesto climatico dimostra, ove ancora ve ne sia bisogno, l’attitudine dei moduli procedurali ad avere implicazioni sostanziali: sebbene la VIA non imponga direttamente l’approvazione o il rigetto di un progetto, nella pratica essa può influenzare fortemente l’esito del relativo procedimento. 
In terzo luogo, perché mentre in Europa si assiste a un ampliamento giurisprudenziale del campo di applicazione della VIA, negli Stati Uniti si osserva un orientamento opposto. Nel recentissimo caso Seven County Infrastructure Coalition v. Eagle County (maggio 2025), riguardante la costruzione e la gestione di una linea ferroviaria per facilitare il trasporto del petrolio dallo Utah alle raffinerie della Louisiana, del Texas e di altre aree, la Corte Suprema americana ha escluso che la VIA debba considerare gli impatti ambientali indiretti, derivanti, a monte, dall’aumento delle trivellazioni petrolifere nello Utah o, a valle, dalla raffinazione del petrolio greggio nei luoghi di destinazione.
 

Al di là delle singole soluzioni adottate, la recente decisione della Corte Suprema americana — pur riferita a un caso non del tutto sovrapponibile a quelli europei — colpisce per un aspetto fondamentale: la rivendicazione esplicita del ruolo centrale della politica e dei processi democratici nella definizione della governance climatica. Un messaggio chiaro, che invita a riflettere sul confine, sempre scivoloso, tra diritto e politica (e tra giurisdizione e amministrazione).

MIRIAM ALLENA

Università Bocconi
Dipartimento di Studi Giuridici