Finanza senza capitale. Umano
La recente crisi finanziaria legata al mercato immobiliare statunitense ha dato nuovi elementi per comprendere come i mercati finanziari siano ormai inestricabilmente interconnessi su scala planetaria e ha consentito a molti di sottolineare i danni, a questo punto ciclici, del gioco d'incastri su cui è costruita l'economia iperfinanziarizzata. Nonostante le crisi ripetute e malgrado il crollo di reputazione e legittimazione degli operatori, comprese le agenzie di rating, il peso decisionale della finanza e dei mercati finanziari resta intatto, o quasi. La revisione delle stime di crescita legata alla crisi dei mutui subprime è un ulteriore segnale della centralità che i meccanismi della finanza globalizzata hanno assunto nell'economia contemporanea.
Ma quando da molte parti si afferma, spesso con molta convinzione, almeno verbale, che la ricchezza di un paese passa per la competitività delle sue imprese e del "sistema" e quando si sostiene che nell'economia globalizzata e della conoscenza l'asset più critico è rappresentato dal capitale umano, i mitici (o mitizzati) mercati finanziari che ne pensano? Ci credono?
Non è una domanda retorica. Se ci credono davvero ci aspettiamo politiche, investimenti e aperture di credito verso le imprese virtuose nella capacità di generare nuova conoscenza e innovazione tramite un'efficace gestione del capitale umano. Accade nella realtà? Purtroppo, alcuni elementi fanno pensare che la situazione reale sia un po' diversa dal dichiarato. Per esempio, sul tema della valorizzazione degli intangibles, si ha spesso l'impressione, suffragata da molte evidenze, che nei rendiconti alla comunità finanziaria le imprese confinino gli investimenti per lo sviluppo del capitale umano nel magma indistinto delle attività di responsabilità sociale o del bilancio sociale. Se così è, la connessione tra capitale umano e vantaggio competitivo salta per aria, perché se investire in un asset strategico diventa segnale di attenzione sociale – o elemento di capitalismo compassionevole, per usare un'espressione più forte -a quella connessione non si crede affatto, se non in qualche convegno, annual report o intervista sui giornali.
Di fronte alla comunità finanziaria, se la sente un amministratore delegato di sostenere che la profittabilità dell'ultimo trimestre è stata erosa da un importante progetto di sviluppo del capitale umano? E, nel caso in cui questo accada, che succede il giorno dopo al valore delle azioni? Chi è disposto oggi a credere che un massiccio investimento nei salari o nella formazione possa produrre una crescita di produttività in grado di compensare, in tempi ragionevoli, l'investimento fatto? Come reagirebbero gli analisti finanziari di fronte a un'impresa che decide di alzare i salari perché crede nel ritorno di produttività a medio/lungo?
Questo potenziale conflitto tra le logiche della finanza e l'idea del capitale umano come base di competitività, nasce essenzialmente da due problemi interconnessi. Primo, i tempi degli investimenti nel capitale umano sono molto diversi dalla velocità con cui si muovono oggi i mercati e gli interessi degli investitori. Secondo, e collegato al primo: se un investitore fosse relativamente certo della relazione di causa-effetto che lega i salari alla produttività, forse non ci sarebbero tante discussioni. Il rischio insito in questa relazione è molto difficile da misurare, così come, più in generale, è difficile misurare l'impatto del capitale umano sulle performance. Prendendo la licenza di usare un'analogia storicamente più importante: è come se, da un lato, ci fosse qualcuno in grado di capire che il sole sta al centro e i pianeti gli girano attorno, ma non dispone ancora del cannocchiale per dimostrarlo e non pensa che sia così importante impegnarsi per costruirlo; dall'altro, ci sono i sacerdoti, quelli che contano, che chiedono prove e strumenti per verificare se la teoria sia vera, ma non siamo certi che una volta pronto il cannocchiale avranno davvero voglia di guardarci dentro per mettere in discussioni le proprie azioni. Su entrambi i versanti, sacerdoti e apprendisti astronomi, resta molto lavoro da fare.