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Finalmente tutelato il Made in Italy: ma bastera'?

, di Giorgio Sacerdoti
La legge è fatta, ma c'è il rischio che si traduca in un flop

Il Parlamento ha approvato il disegno di legge Reguzzoni-Versace-Calearo, che risponde alle pressanti istanze di settori della filiera del Made in Italy di ottenere una protezione speciale che valorizzi la fabbricazione in Italia di prodotti di qualità, esposti alla concorrenza a basso costo dei paesi in via di sviluppo anche a prescindere dalla contraffazione. L'istanza era (e resta) quella di introdurre una marcatura obbligatoria dei prodotti importati per rendere nota al consumatore l'origine della merce. È ciò che è previsto per legge in molti paesi industrializzati come gli Usa. Si tratta però di una competenza dell'Unione europea nel cui ambito i principali paesi importatori, come Gran Bretagna e Germania, sono risolutamente contrari. Solo un deciso intervento dei parlamentari europei, ora competenti in materia grazie al trattato di Lisbona, potrebbe finalmente risolvere lo stallo.

Ecco perché a Roma si è scelta una via diversa. Da un lato la nuova legge impone un sistema di etichettatura obbligatoria dei prodotti finiti nel tessile, pelletteria e calzaturiero che ne evidenzi l'origine quanto a ciascuna fase di lavorazione e assicuri la tracciabilità dei prodotti, secondo modalità che saranno precisate in futuri decreti attuativi. Dall'altro lato, in modo più preciso e innovativo, la legge riserva l'indicazione Made in Italy per i prodotti finiti nel tessile, pelletteria, calzaturiero, i prodotti conciari e i divani, a quei prodotti in cui sono realizzate da noi almeno due fasi qualificanti della lavorazione, precisate nella legge in relazione a ciascun settore. Da notare che la marcatura non è obbligatoria, ma se il produttore vuole utilizzarla queste sono le condizioni. Dopo tanto discutere il Made in Italy ha dunque una sua tutela; l'obiettivo è che il consumatore possa distinguere tra il prodotto nostrano e quello importato, tanto più che le false indicazioni saranno severamente punite. Il presupposto è che al prezzo di regola più alto corrisponda davvero una migliore 'qualità italiana' tale da poter essere valorizzata nella pubblicità e nel marketing, sia in Italia che all'estero.Due cautele sono però d'obbligo. Anzitutto, l'entrata in vigore della legge è stata fatta slittare al 1° ottobre per dar tempo alla Commissione di Bruxelles di esprimersi sulla compatibilità della legge con la normativa europea. Anche se il nostro Parlamento si è ben guardato dal legiferare sui prodotti importati, i requisiti di tracciabilità delle varie fasi di produzione e della loro localizzazione potrebbero cozzare con i vincoli europei. Dall'altro lato, c'è il rischio che questo sistema di etichettatura riservata per il Made in Italy si risolva o in un boomerang o in un flop, vuoi per la complessità dello schema che per ragioni di mercato. È possibile che ci siano prodotti che non hanno diritto al marchio, a sensi della legge, ma che pure siano fabbricati e concepiti in larga parte in Italia. Prodotti delle nostre aziende fabbricati o fatti fare in parte all'estero per ragioni di prezzo e concorrenza risulteranno discriminati. D'altra parte potersi fregiare dell'ambito Made in Italy non equivale in alcun modo a garanzia di qualità!C'è poi un rovescio della medaglia. Perché il consumatore dovrebbe diffidare a priori del Made in China o del Made in Perù? L'idea che solo il prodotto nostrano sia valido e che il prezzo sia una variabile secondaria è indice di una mentalità protezionistica, alla lunga perdente. Proprio quando i nostri produttori delocalizzano e si lamentano a ragione delle barriere che tanti paesi promettenti in via di forte crescita frappongono alle nostre esportazioni in settori tipici del Made in Italy, non solo quelli dell'elenco di legge.