Contatti

Etnia e impiego, relazione pericolosa

, di Maurizio Del Conte - professore di diritto del lavoro
E' la nuova sfida che l'Italia deve vincere. Guardando anche alle esperienze di chi c'è passato

Correva l'anno duemila quando, a Milano, si sperimentò una operazione che per allora presentava caratteristiche di assoluta rottura rispetto allo status quo: in un mercato del lavoro che, nella vulgata comune, appariva irrimediabilmente ingessato da lacci e lacciuoli legislativi, le parti sociali sottoscrivevano un patto per il lavoro su base territoriale metropolitana, con il quale si creava una breccia, tanto sottile quanto dirompente, nel monolitico sistema del diritto del lavoro nazionale. Individuata, in particolare, nel contratto di lavoro a termine la testa di ariete per forzare il blocco delle rigidità, si erano introdotte specifiche ipotesi di deroga, preventivamente concertate tra le parti, ai limiti allora previsti dalla legge.

Studiato nei dettagli con intelligenza e lungimiranza, il patto per il lavoro forzava il sistema, evitando però di passare dalla porta principale: non si mettevano in discussione le regole complessive del mercato del lavoro, ma ci si concentrava su casi circoscritti. In particolare, si individuavano due categorie: quella dei soggetti deboli nel mercato del lavoro e quella dei cittadini extracomunitari disoccupati. Entrambe le categorie erano significativamente accomunate dalla previsione di una speciale corsia riservata per l'avviamento al lavoro. In tal modo, il patto milanese di inizio secolo riconosceva formalmente la categoria svantaggiata degli immigrati extracomunitari e realizzava, quindi, un importante, quantomeno sotto il profilo simbolico, esperimento di azione positiva in favore di essa.

A meno di un decennio da quella esperienza occorre chiedersi se, dal punto di vista del legislatore del lavoro, quella dei lavoratori extracomunitari nel nostro paese sia ancora da considerare alla stregua di una fascia debole meritevole di speciale protezione o se, invece, possano considerarsi superate le ragioni strutturali di trattamenti differenziati. Pur essendo di tutta evidenza il grande rilievo di tale questione, non si può non osservare come il dibattito sul lavoro degli immigrati finisca per lo più per esaurirsi attorno ad un problema tutt'affatto diverso e, cioè, sui requisiti per l'ingresso e per la permanenza nel territorio dello stato dei lavoratori migranti. Insomma, mentre si discute moltissimo di flussi e di permessi di soggiorno, poco o nulla si dice su dove e come lavorano gli stranieri. A voler essere ottimisti, si potrebbe credere che ciò dipenda dalla ormai piena integrazione dei lavoratori stranieri con i colleghi italiani. Ma questa ottimistica lettura dei fatti sembra, a ben vedere, ancora assai lontana dalla realtà. La concentrazione del lavoro degli immigrati verso determinate mansioni a basso contenuto professionale, nei settori produttivi primari o nei servizi alla persona, ci dice che si stanno consolidando rigide compartimentazioni al ribasso fra tipologie professionali e gruppi etnici: situazione, questa, che ostacola in misura significativa il processo di piena ed effettiva integrazione nel tessuto sociale del nostro paese. Così se, quasi un decennio fa, il patto per il lavoro aveva provato a dare una risposta alla obbiettiva difficoltà di accesso al lavoro per gli immigrati extracomunitari, oggi la nuova sfida sul fronte del lavoro degli stranieri sembra essere, piuttosto, quella del superamento della etnicizzazione delle professionalità. Fortunatamente, la storia dei più solidi ed evoluti paesi industrializzati insegna che una simile sfida può essere vinta e che essa rappresenta un passaggio obbligato per un pacifico ed armonioso sviluppo della società e per un più diffuso e duraturo benessere collettivo.