E' arrivato un bastimento carico di migranti
Al 1861, la popolazione italiana ammontava, entro i confini attuali, a circa 25.750.000 abitanti, meno della metà dei 60.400.000 odierni. Gli italiani avevano ancora le caratteristiche tipiche di una popolazione pre-transizione demografica, e in particolare elevati tassi sia di natalità, sia di mortalità. La media nazionale di cinque figli per donna era infatti controbilanciata da un'elevata mortalità infantile (oltre un quinto dei neonati moriva prima di aver compiuto un anno) e da una speranza di vita alla nascita di appena 32 anni, per uomini e donne indistintamente. Tuttavia se, com'è noto, le condizioni economiche e sociali delle diverse componenti del nuovo regno erano assai variegate, lo stesso vale per le caratteristiche demografiche. Ancora si discute se la divisione politica del paese abbia costituito di per sé un fattore di differenziazione dei comportamenti demografici, interagendo con fattori strutturali (le caratteristiche dell'ambiente fisico, le forme del possesso agrario, ecc.) che sarebbero perdurati ben oltre l'Unità. Alcune specificità regionali potrebbero stupire quanti non abbiano una conoscenza specifica di tali fenomeni: ad esempio, l'elevata mortalità infantile riscontrabile in Lombardia e in altre regioni del Nord, superiore alla media nazionale e legata, pare, a fattori climatici. Molte differenze regionali, poi, invece di ridursi all'indomani dell'Unità si sarebbero accentuate, almeno fino a dopo la Seconda Guerra Mondiale, per effetto del diverso ritmo di sviluppo economico e sociale.
Se l'unificazione nazionale non fu automaticamente un'unificazione demografica, neppure segnò il momento in cui prese avvio la transizione demografica. Questo fondamentale processo sarebbe iniziato vent'anni dopo, con un vistoso declino della mortalità per tutto il trentennio precedente la Prima Guerra Mondiale. Solo dopo il conflitto sarebbe iniziata anche una progressiva riduzione della fecondità. Fin dal 1880 circa, l'allargarsi della forbice tra nati e morti determinò un rapidissimo accrescimento demografico, largamente eccedente le possibilità di un sistema economico ancora nelle fasi iniziali dell'industrializzazione, alle prese inoltre con una grave crisi agraria, di offrire prospettive adeguate. Ne risultò una delle caratteristiche più notevoli della popolazione italiana di fine Ottocento, inizio Novecento: l'accentuata propensione a emigrare. È possibile stimare in oltre 25.000.000 gli italiani che, negli ultimi 150 anni, hanno lasciato il paese in cerca di migliori prospettive altrove, dirigendosi, in quasi un caso su due, oltreoceano. La maggior parte fecero ritorno, ma la perdita netta è pari ad almeno 9.000.000 di persone. Se il massimo numero di espatri annui fu raggiunto nel 1913, alla vigilia del conflitto mondiale, non va dimenticato che l'emigrazione rimase consistente nel periodo tra le due guerre e tornò a intensificarsi nei decenni successivi la Seconda Guerra Mondiale. Negli stessi anni, si verificava un imponente processo di migrazione interna, prevalentemente dal Sud al Nord della penisola, che rifletteva un accentuato differenziale di sviluppo industriale. Negli ultimissimi decenni, il processo migratorio si è invertito e l'Italia, da paese d'emigranti, è divenuto meta di consistenti flussi immigratori. Non si tratta certo dell'unico ribaltamento nelle caratteristiche demografiche italiane. Se al 1861 l'Italia aveva livelli di natalità e mortalità piuttosto elevati rispetto alla media europea, oggi siamo divenuti un esempio tipico di paese a 'fertilità bassissima' (lowest-low fertility), con un minimo di 1,19 figli per donna toccato nel 1995. Allo stesso tempo, possiamo vantare un'aspettativa di vita alla nascita tra le più alte al mondo. Si tratta, tutto sommato, di segnali di un ulteriore ribaltamento: il paese, da povero che era, è divenuto ricco. Purtroppo, però, senza riuscire a risolvere pienamente, neppure dal punto di vista demografico, gli squilibri che da sempre lo caratterizzano.