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Duecento candeline, ma contano le ultime venti

, di Stefano Baia Curioni - vicepresidente del Centro di ricerca Art, science and knowledge (Ask) della Bocconi
Luci e ombre dei due secoli di vita di Piazza Affari, una delle istituzioni italiane più longeve.

La Borsa italiana compie 200 anni. Accanto ad alcune, rare, altre istituzioni bancarie è una delle più antiche nella scena economica italiana. La sua longevità è quasi un paradosso: una delle cifre della sua sopravvivenza è stata, infatti, quella di garantire un 'non funzionamento' e una non rilevanza rispetto alle dinamiche di scambio finanziario locale e, in seguito, una radicale dipendenza dalle grandi istituzioni bancarie del paese. Solo negli ultimi vent'anni, molto di recente quindi, il processo di istituzionalizzazione del mercato mobiliare è stato più marcato, significativo e indipendente.

La sua evoluzione è stata segnata da poche grandi tappe. È stata fondata in epoca napoleonica (1808) per il congiungersi di esigenze di liquidità aggregatesi localmente e istanze di controllo contro le speculazioni al ribasso sui titoli di stato francesi, messi sotto pressione dal blocco continentale. In quanto borsa 'pubblica', orientata al controllo, è stata invisa agli operatori locali, che per un quarantennio ne hanno semplicemente ignorato l'esistenza. Solo negli anni Cinquanta dell'Ottocento ha cominciato a trovare equilibri di funzionamento locali e a radicarsi istituzionalmente.

L'Unità di Italia ha portato al contraddittorio tentativo di integrare le diverse borse locali delle città italiane grazie all'imposizione di principi comuni la cui natura era però tale da smantellare le regolazioni locali senza sostituirne di adeguate a livello nazionale. Una pletora di operatori di dubbia affidabilità ha quindi invaso i parterre riducendo l'affidabilità e la trasparenza dei mercati che, con la prima industrializzazione del paese, si avviavano a crescere.

L'integrazione telegrafica e il ciclo favorevole alla fine dell'Ottocento hanno cambiato lo scenario: Milano e Genova emergevano come riferimenti di un sistema bipolare che spartiva speculazione secondaria (Genova) e raccolta primaria (Milano) in una stagione di decisiva finanziarizzazione dell'economia nazionale.

La crisi del 1907 e la regolazione del 1913 hanno poi chiuso un ciclo, consegnando operativamente l'istituzione nelle mani dell'alta banca, attore cruciale per il sostegno di una politica di potenza e indipendenza industriale, destinata a controllarne i destini fino a tutti gli anni Ottanta.

Nel 1991 la prima riforma della Borsa, con l'istituzione delle Sim, ripristina l'ipotesi di formare un campo operativo più indipendente dagli operatori bancari e, più di recente, la privatizzazione di Borsa Spa ha rinvigorito il percorso.

Molto è stato detto e scritto sui mali della borsa italiana: disintermediata, arretrata, ondivaga, poco trasparente, troppo 'minore' anche tenendo conto del modello di capitalismo misto esperito dal nostro paese (è del 1981 un libro dal titolo ammonitorio Trasparenza e vergogna, scritto da Guido Rossi dopo un'esperienza alla presidenza di Consob). Ogni volta però le speranze per una modernizzazione del sistema finanziario italiano sono passate da una ripresa operativa e istituzionale del mercato.

Forse la criticità principale della regolazione italiana in materia, almeno fino a tutti gli anni Ottanta del Novecento, è stata la sua incapacità di proteggere e responsabilizzare un gruppo sostanzioso di operatori professionali del mercato, capaci di difendere il suo possibile ruolo di istituzione della democrazia economica e della trasparenza nel nostro paese.

Forse la speranza, nel presente e nel futuro (dato un passato avventuroso, ma poco glorioso), è che l'istituzione di una borsa indipendente, telematica e internazionalizzata possa finalmente rappresentare non solo uno strumento di garanzia per gli scambi, ma anche un polo di formazione di una cultura della trasparenza, requisito fondamentale per la condivisione socialmente allargata del valore generato dalla crescita industriale.