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Digerire Fukushima

, di Francesco Gulli' - associato di economia applicata alla Bocconi
Un compito difficile anche per gli esperti

Nell'elenco dei peggiori incidenti nucleari, Fukushima affiancherà Three Mile Island (1979) e Cernobyl (1986). In Italia, intanto, ci si apprestava a rivivere l'esperienza referendaria del 1987.

Come allora, la maggioranza (dei votanti) si sarebbe espressa contro il nucleare. Tutto già visto quindi? Non se guardiamo al contesto nazionale e internazionale e al significato di Fukushima.Riguardo al contesto, 25 anni dopo Cernobyl la comunità internazionale sembrava averne metabolizzato le conseguenze mentre si rafforzava la consapevolezza che il nucleare potesse contribuire alla lotta ai cambiamenti climatici. Molti paesi non solo riconsideravano la chiusura delle centrali ma anzi ne allungavano la vita operativa (da 40 a 50-60 anni). Altri annunciavano un clamoroso rientro. Fra questi l'Italia, sulla cui capacità di realizzare un ciclo tecnologico così complesso non mancavano, e non mancano, fondate perplessità, tra l'altro alimentate dalle logiche politiche che a volte hanno ispirato le principali decisioni anche sul problema della sicurezza, e dall'incertezza sulla localizzazione delle centrali e del deposito per le scorie (annoso, fondamentale e irrisolto problema). Le condizioni di contesto sociale, amministrativo e istituzionale sembravano perciò suggerire che l'Italia già non fosse il paese più idoneo a realizzare e gestire un ambizioso programma nucleare.Poi si è verificato il disastro giapponese. Il significato di Fukushima va oltre quanto successo in passato. Perché se abbiamo assimilato Three Mile Island, frutto dell'impreparazione e dell'errore umano cui la tecnologia ha posto parziale rimedio, se abbiamo digerito addirittura Cernobyl, da derubricare come il risultato dell'insensatezza progettuale e gestionale, Fukushima no, è un rospo difficile da ingoiare, anche per gli addetti ai lavori.La filosofia progettuale dell'impianto giapponese è quella 'occidentale' (anche se non la più moderna) con il contenimento primario (assente a Cernobyl) che pare non abbia retto (almeno nel reattore 2). Inoltre, il Giappone è fra i paesi più avanzati, con operatori competenti e responsabili. E infine, l'impianto non era vecchio, come si è cercato di sostenere, e comunque quanto accaduto non sembra avere niente a che vedere con questo. La centrale in questione è molto simile a quella di Montalto di Castro in costruzione in Italia nel 1986, centrale che (se ultimata) oggi avrebbe poco più di 20 anni.Si tratta di circostanze e interrogativi che non possono non insinuare il dubbio che il sistema abbia, semplicemente e nel suo complesso, fallito. Altrimenti come giustificare un'installazione a pochi metri dal mare in un paese che aspetta da sempre l'onda di tsunami? Come interpretare che il centro nevralgico del sistema di sicurezza, i diesel per l'alimentazione elettrica di emergenza, era al riparo di uno tsunami di soli sei metri, quando quello del 2004 aveva prodotto onde alte dieci metri? Come giudicare il fatto che per ridare energia all'impianto ci sono volute due settimane, compromettendo anche il raffreddamento delle piscine del combustibile esausto, tra l'altro sprovviste di adeguato contenimento esterno? E come interpretare, in un'industria in cui le simulazioni di criticità si sprecano, la sorpresa dei tecnici per una così incontrollabile produzione di idrogeno? Non sono circostanze attenuanti ma aggravanti. Non è scarsa preveggenza congiunta a una catastrofe imprevedibile. È un segnale che la combinazione uomo-contesto-nucleare (attuale), la sola che definisce i contorni competitivi di una tecnologia, si è rivelata vulnerabile, almeno nell'attuale concezione impiantistica. Occorre quindi rinunciare al nucleare? No, è una risorsa preziosa per l'umanità. Tuttavia, Fukushima implicherà un inasprimento delle procedure e un rafforzamento dei sistemi di sicurezza con un inevitabile aggravio di costo per una tecnologia la cui attuale competitività economica è già da molti messa in discussione. Allora è forse tempo di cambiare passo, superare l'attuale filiera a favore di una nuova concezione tecnologica: impianti (di nuova generazione) più piccoli e a maggiore sicurezza intrinseca e forse anche nuovi cicli del combustibile. È una scelta costosa ma coraggiosa e auspicabile. In questa prospettiva, il dibattito referendario era già ampiamente superato.