Dietro la programmazione, c'e' stato il nulla
Il tema della programmazione fu centrale nel dibattito politico-economico italiano per circa trent'anni, dalla fine della seconda guerra mondiale alla metà degli anni Settanta. Nell'immediato dopoguerra, in concomitanza con il varo del Piano Marshall, si fece sentire la necessità di istituire sistemi di programmazione delle richieste di aiuti economici internazionali, poi, nei primi anni Cinquanta, la programmazione fu espulsa dal dibattito governativo sulla politica economica. Tuttavia, il confronto sulla realizzazione di un governo dell'economia non fu completamente cancellato e si concentrò sulla possibilità di sviluppare una programmazione settoriale, legata all'intervento straordinario nel Mezzogiorno. La pianificazione tornò al centro della dialettica politica con l'approvazione del cosiddetto Schema Vanoni e soprattutto negli anni Sessanta con i primi governi di centrosinistra che, almeno sulla carta, fecero della programmazione uno degli elementi qualificanti della nuova alleanza di governo.
La storia brevemente richiamata può essere letta su due livelli: vi è un primo piano, quello sul quale si svolge il tentativo di creare una programmazione economica nazionale, eminentemente politico. Ve ne è poi un secondo, il dibattito che si svolse in seno alla grandi imprese industriali: una riflessione avviata soprattutto nelle grandi imprese pubbliche, che ben presto legarono i propri modelli di programmazione con i primi parziali sistemi di pianificazione economica, ma anche all'interno delle grandi imprese private, dove si cominciò a riflettere sulla conformazione e il governo dei mercati oligopolistici. Entro un quadro macroeconomico relativamente stabile la pianificazione nazionale era in fondo un sistema per ridurre l'incertezza e un valido riferimento entro cui disegnare la propria strategia di sviluppo. In realtà, in quegli anni di programmazione se ne fece ben poca: a causa di tensioni politiche e istituzionali i programmi economici nazionali non solo non vennero realizzati, ma non furono nemmeno presi in considerazione quali guide della politica economica, rimanendo solo propositi negli accordi programmatici dei partiti.Ciononostante, i tentativi di istituire dei sistemi di programmazione ebbero significativi influssi sugli sviluppi seguenti. Nelle imprese in cui tali processi si svilupparono essi determinarono una modernizzazione delle strutture, con l'acquisizione da parte delle aziende di una maggiore capacità strategica e organizzativa. Per contro (e furono le conseguenze più profonde e durature), la mancata attuazione di una programmazione nazionale fece persistere nell'economia italiana quei disequilibri cui si sarebbe dovuto porre rimedio con uno sviluppo concertato e accentuò gli effetti distorsivi di alcune pratiche politiche. Quando, durante i Sessanta, si crearono gli strumenti operativi della programmazione, questi furono utilizzati per fini prevalentemente elettorali e partitici. L'utilizzo politico delle risorse pubbliche, effettuato anche attraverso la struttura istituzionale pensata per sviluppare la programmazione, divenne una prassi diffusa con conseguenze profonde sui risultati delle imprese. Di quelle a partecipazione statale, ma anche di quelle private, sottoposte a continue pressioni di natura politico-sociale. Si può intravedere un legame tra la mancata definizione di programmi settoriali credibili nel corso degli anni Sessanta e Settanta e la trasformazione del pattern di sviluppo dimensionale dell'impresa italiana che si è cominciato a registrare proprio nel corso del secondo di quei decenni. La trasformazione dimensionale dell'industria non dipese infatti solo dalla forte vitalità con cui si svilupparono in quegli anni le piccole e le medie imprese, ma anche dalla crisi delle grandi imprese pubbliche e private, che ebbe conseguenze sulla specializzazione produttiva del paese.È necessario però sottolineare come, nonostante le distorsioni, l'impegno per un sistema di programmazione nazionale rappresentò forse l'ultimo tentativo di pensare lo sviluppo italiano in prospettiva unitaria. E c'è da chiedersi se oggi, in una fase difficile per l'economia nazionale, non si debba ripensare, se non a qualche forma di programmazione, a un modello di sviluppo entro cui disegnare le politiche industriali per favorire l'uscita delle imprese dalla crisi.