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Di meteoriti e stelle cadenti

, di Massimo Amato - professore associato di Storia economica
Crisi e liquidità: questa volta è difficile misurare i danni. Il rischio, anche se frazionato, non si dissolve e a volte ritorna

A fine gennaio 2007, il capo ufficio studi di Goldman Sachs, Jim O'Neill, sentenziava: "La liquidità c'è finché non c'è più, questa è la realtà dei mercati moderni". Un mese fa, John Gapper, sul Financial Times, prefigurava la fine dell'attuale crisi a termini rovesciati: "La liquidità tornerà... di colpo come è scomparsa".

Così, fra due affermazioni diversamente arrischiate ma egualmente enigmatiche, possiamo racchiudere il piccolo ma significativo sisma di questi ultimi mesi, del quale sembra difficile, più che localizzare l'epicentro, misurare la magnitudo.

Certo, ci si potrebbe spicciare con questa crisi con la stessa sicurezza da sonnambuli usata con le precedenti, e sostenere che essa sia la manifestazione un po' violenta di una "correzione" che in sé non può che essere benefica. Come ha provveduto a fare Rodrigo Rato, direttore generale del Fmi.

Ma come sottrarsi, da svegli, alla domanda che l'evocazione della correzione porta con sé: correzione rispetto a cosa? Rispetto a quale "norma" è possibile misurare l'adeguatezza, della correzione? In quanto scostamenti da una misura, eccesso e difetto la presuppongono. Solo pensate così, le correzioni riconducono all'equilibrio. Questo in teoria. La realtà del mercato moderno sembra essere un'altra cosa. La liquidità "c'è" finché, "di colpo", non c'è più. Altrimenti, le crisi non avrebbero luogo.

E se, invece, dato che accadono, la liquidità non fosse che l'altra faccia del rischio? In questo caso, il paradosso di O'Neill ci direbbe allora: "Il rischio non c'è, finché non riappare in modo incontrollato, se non incontrollabile". Ecco, forse, la lezione di questa crisi: diversa dalle precedenti non per la dimensione delle perdite accertate, né per la qualità degli errori commessi, né per i suoi effetti sull'economia reale, ma per l'inedita difficoltà nel ricondurre i suoi effetti a una misura.

Francesco Ferrara scriveva, a metà ottocento, che "il vuoto lasciato da una crisi è la miglior misura del credito a cui aveva dato luogo". Il vuoto è misura del pieno, come il cratere di un meteorite è misura delle sue dimensioni. Ma il vuoto, nel nostro caso, è stato creato dalla riconcretizzazione di un rischio che si credeva tanto più globalmente dissolto quanto più era stato, grazie ai derivati, localmente "frazionato", come un meteorite ridotto in frammenti destinati a trasformarsi, nell'impatto con l'atmosfera, in innocue stelle cadenti.

Per una strana mutazione, il rischio che torna tutto intero, e che leva istantaneamente liquidità a quei prodotti finanziari costruiti per assicurare il mantenimento della liquidità del mercato, è un rischio che non coincide affatto con la somma delle parti in cui era stato suddiviso, e non vi coincide in una misura essa stessa incerta.

Si è detto che l'allungamento della catena creditoria implicato dalla cartolarizzazione dei mutui subprime abbia consentito un'ulteriore democratizzazione della finanza, aprendo l'accesso ai mercati a soggetti finora esclusi. Forse oggi è possibile vedere che tale supposto vantaggio è controbilanciato da un costo difficilmente misurabile, poiché tocca la forma stessa del rapporto debitore/creditore.

Uno che di debito si intendeva per esperienza, Henry Miller, ha scritto: "Debitore e creditore sono una stessa persona". Sono un solo individuo perché condividono il medesimo rischio: e lo corrono insieme, giacché nessuno dei due sa se il debito potrà essere ripagato.

Il sogno di questi anni sembra essere quello di un mercato in cui i creditori possano allontanare da sé questo rischio indivisibile semplicemente frazionandolo.

Si dice spesso che la finanza globalizzata è una finanza atomistica. Ora, l'indivisibile della finanza è il rapporto fra debitore e creditore. Il sogno di un rischio infinitamente divisibile via mercato si accompagna alla possibilità di risvegliarsi alle prese con fenomeni indeterminabili. La volontà di calcolare tutto fa apparire inopinatamente l'incalcolabile.