Cosi' non si cura la febbre
La scorsa estate le agenzie di rating sono state al centro di polemiche su entrambe le sponde dell'Atlantico. Negli Usa ha fatto discutere la decisione di Standard & Poor's di tagliare il rating del debito pubblico, tradizionalmente pari a AAA, per segnalare un limitato incremento del rischio; in Europa, Moody's ha rivisto pesantemente il giudizio assegnato al Portogallo suscitando critiche anche da parte del presidente (portoghese) della Commissione Europea.
Sorprendono, per certi versi, le accuse dei politici e dei grand commis di Stato alle agenzie di rating, cui spetta l'ingrato compito di segnalare per tempo l'inasprimento dei rischi per i risparmiatori. Proprio la politica, mostrandosi indecisa nell'arginare la tempesta dei mercati, ha contribuito all'aggravarsi dei timori degli investitori (dipinti dai telegiornali come orridi speculatori intenti a bombardare le borse con granate di vendite allo scoperto, quando spesso si tratta solo di gestori del risparmio preoccupati di portare a casa la pelle, propria e dei piccoli clienti). Da una parte il mediocre compromesso raggiunto alla tredicesima ora dal parlamento statunitense per scongiurare, in agosto, il rischio di insolvenza sui bond del Tesoro; dall'altra le difficoltà dei governi dell'area euro nel costruire un argine alla crisi del debito sovrano che fosse insieme efficace e politicamente accettabile per l'opinione pubblica tedesca. Di fronte a rinvii e balbettii sintomatici di una limitata e tardiva capacità di intervento, sarebbe stato difficile per i custodi del rating restarsene inerti; a maggior ragione dopo che, nel 2008, furono accusati di non aver segnalato per tempo ai mercati il progressivo aggravarsi della crisi finanziaria. Rileggendo le dichiarazioni estive dei politici europei si ha l'impressione che qualcuno, forse perché incapace di curare la febbre, stia accarezzando l'idea di spezzare il termometro. Due proposte sono singolari. La prima (condivisa, si dice, anche da figure come il commissario europeo Michel Barnier e Christine Lagarde, direttrice del Fmi) è quella di imporre alle agenzie di non diffondere indicazioni di rating sui paesi oggetto di piani di salvataggio. Oltre che inquietante (perché vieta a qualcuno di manifestare la propria opinione), l'idea è potenzialmente controproducente: se alle agenzie si proibisce di comunicare col mercato, esse non potranno tagliare il rating quando necessario, ma nemmeno rassicurare gli investitori in caso di novità positive. Di fronte a un simile blackout è improbabile che il mercato reagisca con compostezza, accontentandosi dei comunicati stampa di qualche vertice europeo che assicurano che tutto è (per ora...) sotto controllo. La seconda è quella di creare con capitali europei (pubblici?) un'agenzia di rating "de noantri", da contrapporre allo strapotere dei perfidi analisti americani. La proposta non convince. Primo, il declassamento del debito Usa dimostra che le agenzie non hanno timori reverenziali verso il paese dove hanno sede legale. Secondo, un'agenzia finanziata (e controllata) dal settore pubblico potrebbe peccare di benevolenza verso il proprio azionista. Infine, un rating 'promosso' dallo Stato o dall'Ue avrebbe, agli occhi dei risparmiatori, il valore di un sigillo di qualità, una sorta di garanzia implicita che sgombra il campo dai timori di default (ma non dal rischio che il default avvenga lo stesso). La riforma più urgente non riguarda le agenzie ma la regolamentazione. In passato normative hanno assegnato ai rating una sorta di valore legale, consentendo ad esempio risparmi patrimoniali alle banche che acquistavano bond provvisti di tripla A. Tali normative andrebbero alleggerite, riportando i rating al loro ruolo originario: un'opinione emessa da un operatore specializzato. Sarà difficile però smantellarle, visto che prima di togliere ai rating il loro ruolo regolamentare si dovrebbe sostituirli con un sistema migliore per misurare il rischio. Che per ora non si vede.